Il segreto delle Cattedrali - Fulcanelli



FULCANELLI


IL MISTERO
DELLE CATTEDRALI


e l'interpretazione esoterica
dei simboli ermetici
della Grande Opera


Terza edizione ampliata


con tre prefazioni di

EUGÈNE CANSELIET, F.C.H.



Scansione Ettore Peluso
Corretto da filuc (filuc@everyday.com)


EDIZIONI MEDITERRANEE



































La maggior parte delle illustrazioni fotografiche sono di Pierre Jahan



Titolo originale dell'opera : Le Mystère des Cathédrales - © Copyright
1964
by Jean-Jacques Pauvert, Paris - © Copyright 1972 by Edizioni
Mediterranee - Roma - Traduzione di Ferruccio Ledvinka - Copertina di
Giulia Marini -
Printed in Italy - S.T.A.R. - Via Luigi Arati, 12 - Roma.

Ai Fratelli di Heliopolis




PREFAZIONI

PREFAZIONE ALLA
PRIMA EDIZIONE
Per il discepolo è un compito ingrato e difficile presentare una
opera scrìtta dal proprio Maestro. Perciò, la mia intenzione non è quella d'analizzare in quest'occasione II Mistero delle Cattedrali, né di
sottolineare il bello stile ed il profondo insegnamento. Confesso umilmente la mia incapacità e preferisco lasciare ai lettori il compito d'apprezzare il libro, ed ai Fratelli di Heliopolis la gioia di raccogliere
questa sintesi, esposta così magistralmente da uno di loro. Il tempo
e la verità faranno il resto.
Già da molto tempo, ormai, l'Autore di questo libro non è più
tra noi. L'uomo si è eclissato. Riemerge soltanto il suo ricordo. Provo
una certa pena nell'evocare l'immagine di questo Maestro laborioso
e sapiente, al quale devo tutto, deplorando; ahimè! la sua precoce
dipartita. I suoi molti amici, fratelli sconosciuti che attendevano da lui
la soluzione del misterioso
Verbum dimissum, lo rimpiangeranno in-
sieme a me.
Ma poteva egli, giunto al culmine della Conoscenza, rifiutare di obbedire agli ordini del Destino? Nessuno è profeta in patria
Questo vecchio proverbio spiega, forse, la ragione occulta dello sconvolgimento provocato, nella vita solitaria e studiosa del filosofo, dalla
scintilla della Rivelazione. Per effetto di questa fiamma divina, il vecchio uomo si è completamente consunto. Il nome, la famiglia, la patria, tutte le illusioni e tutti gli errori, tutte le vanità sono ridotte in
polvere. Ma da questa cenere, come la fenice dei poeti, nasce una
nuova personalità. Così almeno pretende la Tradizione filosofale.
Il Mio Maestro lo sapeva. E sparì quando giunse l'ora fatidica,
quando il Segno fu compiuto. Chi oserebbe sottrarsi alla Legge?

Anch'io, nonostante lo struggimento provocato da una separazione
dolorosa, ma inevitabile, se mi capitasse il fortunato avvenimento che
obbligò l'Adepto ad allontanarsi dagli orrori di questo mondo, non
mi comporterei in maniera diversa.
Fulcanelli non è più. Eppure il suo pensiero è rimasto, ardente
e vivo, chiuso per sempre in queste pagine come in un santuario, e
questa è la nostra unica consolazione.
Grazie a lui, la Cattedrale gotica ci confida il suo segreto. E non
senza sorpresa né emozione apprendiamo in che modo fu tagliata, dai
nostri antenati, la
prima pietra delle fondazioni, gemma abbagliante,
più preziosa dello stesso oro, e sulla quale Gesù fondò la sua Chiesa.
Tutta la Verità, tutta la Filosofia, tutta la Religione si basano su
quest'unica
Pietra sacra. Molti uomini, pieni di presunzione, si credono
capaci di fabbricarla; eppure, quanto sono rari gli eletti abbastanza
semplici, abbastanza sapienti, abbastanza abili da riuscirvi!
Ma ciò non ha molta importanza. Ci basti sapere che le meraviglie del nostro medioevo contengono la stessa verità positiva, gli stessi
fondamenti scientifici delle piramidi d'Egitto, dei templi greci, delle
Catacombe romane e delle basiliche bizantine.
Tale è, grosso modo, la portata del libro di Fulcanelli.
Gli ermetisti, o almeno quelli che sono degni di questo nome,
scopriranno anche dell'altro. Si dice che la luce nasce dallo scontro
di idee differenti: essi potranno riconoscere che qui, nel confronto tra
il Libro e l'Edificio, si libera lo Spirito e la Lettera muore. Fulcanelli
ha fatto per loro il primo sforzo; tocca ora agli ermetisti fare l'ultimo.
La strada che resta da percorrere è breve. C'è ancora bisogno di individuarla con, esattezza e di non muoversi senza sapere dove si va.
Cosa si vuole di più?
Io so, non per averlo scoperto da solo, ma perché l'Autore stesso me ne diede la certezza più di dieci anni ja, che la chiave dell'arcano
più grande è data, senza alcuna finzione, da una delle figure che illustrano quest'opera. E questa chiave consiste unicamente in un colore,
manifesto all'artista già dall'inizio del lavoro. Nessun Filosofo, a
quanto mi è dato sapere, ha colto l'importanza di questo punto essenziale. Rendendolo noto, obbedisco alle ultime volontà di Fulcanelli e
sono in regola con la mia coscienza.
Ed ora, mi sia permesso, in nome dei Fratelli di Heliopolis e mio,
di ringraziare caldamente l'artista al quale il mio maestro affidò l'illustrazione del proprio lavoro. Infatti, grazie al talento sincero e minuzioso del pittore Julien Champagne,
Il Mistero delle Cattedrali riveste
il proprio austero esoterismo d'un superbo mantello di disegni originali.

E. canseliet
F.C.H
Ottobre 1925


PREFAZIONE ALLA
SECONDA EDIZIONE

 Quando Il Mistero delle Cattedrali fu scritto, nel 1922, Fulcanelli non aveva ricevuto ancora Il Dono di Dio, ma era così vicino all'Illuminazione suprema che ritenne necessario aspettare e mantenere l'incognito, del resto sempre conservato più ancora per inclinazione personale che per scrupolo d'una rigorosa obbedienza alla regola del segreto. In verità, dobbiamo ammettere che quest'uomo d'un'altra età, per il suo strano portamento, i suoi modi antiquati e le sue insolite occupazioni, attirava, senza volerlo, l'attenzione degli oziosi, dei curiosi e degli sciocchi; molto meno rumore, tuttavia, suscitò, un po' più tardi, la scomparsa totale della sua presenza fisica.
Così, non appena fu in ordine la prima parte dei suoi scritti, il Maestro manifestò il suo desiderio, - assoluto e senza appello, cioè che la sua vera entità restasse nell'ombra, e che sparisse la sua etichetta sociale, ormai definitivamente cambiata con lo pseudonimo voluto dalla Tradizione e da molto tempo familiare. Questo nome celebre è così solidamente fissato nella memoria fino alle future generazioni, che non è assolutamente possibile sostituirlo con un qualsiasi altro patronimico per quanto quest'ultimo possa sembrare ben fondato, o brillantissimo o il più auspicato.
Ci si deve, come minimo, persuadere che il padre d'un'opera di così eccelsa qualità, non lo abbandonò certo, una volta compiuto il suo lavoro, se non per delle ragioni strettamente pertinenti, se non imperiose, e maturate profondamente. Su di un piano diverso, tali ragioni diedero luogo alla rinuncia, che non ci si stanca d'ammirare, perché anche gli autori più distaccati dal mondo, scelti tra i migliori, si mostrano sempre sensibili alla gloriuzza che deriva dalla propria opera stampata. Si deve aggiungere però, che il caso di Fulcanelli non assomiglia a nessun altro, nell'ambito delle Lettere del nostro tempo, perché proviene da una disciplina etica infinitamente superiore, secondo la quale il nuovo Adepto armonizza il suo destino con quello dei suoi rari predecessori, come lui apparsi alla loro epoca determinata, scaglionati su una strada immensa, simili a dei fari di salvezza e di misericordia. Filiazione senza macchia, che si mantiene prodigiosamente, perché senza sosta venga confermata, nella sua duplice manifestazione spirituale e scientifica, la Verità eterna, universale ed indivisibile. E come la maggioranza degli antichi Adepti, Fulcanelli, gettando alle ortiche del fosso la consunta spoglia del vecchio uomo, lasciò soltanto sul sentiero la traccia onomastica del proprio fantasma di cui l'altero biglietto da visita proclama la suprema aristocrazia.


* * *

Per coloro che posseggono qualche conoscenza dei libri alchimistici del passato è necessario basarsi su questo aforisma: l'insegnamento orale da maestro a discepolo è superiore a qualsiasi altro. È in questo modo che Fulcanelli ricevette l'iniziazione, così come noi l'abbiamo ricevuta da lui; dobbiamo però aggiungere, da parte nostra, che Ciliani ci aveva già spalancato la porta del labirinto, nella settimana incui apparve, nel 1915, la riedizione del suo opuscolo.
 Nella nostra Introduzione alle Dodici Chiavi della Filosofia noi abbiamo ripetuto di proposito che Basilio Valentino fu l'iniziatore del nostro Maestro, e ciò perché ci fu data l'occasione di cambiare l'epiteto del vocabolo, cioè di sostituire - per amore di esattezza - l'aggettivo numerale primo al qualificativo vero che avevamo utilizzato prima, nella nostra Prefazione delle Dimore filosofali. A quell'epoca, noi ignoravamo la lettera così commovente che riportiamo qui sotto e che trae tutta la sua cattivante bellezza dallo slancio dell'entusiasmo, dal l'accento del fervore che infiamma improvvisamente lo scrittore, diventato anonimo a causa della raschiatura della firma, come lo è il destinatario per la mancanza d'indirizzo. Indubbiamente costui fu il maestro di Fulcanelli, il quale lasciò, tra le sue carte, la lettera rivelatrice, segnata in croce da due righe sporche di carbone, lungo la traccia della piegatura, per essere stata poi tanto tempo chiusa in un portafoglio, dove è stata lo stesso raggiunta dalla polvere impalpabile e grassa dell'enorme forno sempre in attività. Così l'autore del Mistero delle Cattedrali conservò per molti anni, come un talismano, la prova scritta del trionfo del suo vero iniziatore, prova che nulla più vieta di pubblicare oggi, soprattutto perché essa fornisce una idea potente e giusta del sublime ambito nel quale si situa la Grande Opera. Pensiamo che non ci sarà rimproverata la lunghezza della strana lettera da cui sarebbe certo un peccato eliminare anche una sola parola,
 Mio caro amico,
Questa volta avete veramente ricevuto il Dono di Dio; è una grande Grazia, e per la prima volta, mi rendo conto di quanto sia raro questo favore. Infatti io credo che l'arcano, nel suo abisso insondabile di semplicità, è introvabile con l'aiuto del solo raziocino per quanto esso possa essere sottile ed esercitato. Finalmente siete in possesso del Tesoro dei Tesori, rendiamo grazie alla Luce Divina che ve ne ha reso partecipe. Del resto, l'avete meritato giustamente con la vostra incrollabile fede nella Verità, la costanza degli sforzi, la perseveranza nel sacrifìcio, ed anche, non dimentichiamolo,... con le vostre opere buone.
Quando mia moglie m'ha annunciato la bella notizia, sono stato sbalordito dalla gioiosa sorpresa e non stavo più in me dalla felicità. A tal punto che mi son detto: purché non paghiamo quest'ora di euforia con qualche cosa di terribile domani. Ma, sebbene informato sommariamente della cosa, ho creduto di capire, e ciò conferma la mia certezza, che il fuoco viene spento soltanto quando l'Opera è compiuta e tutta la massa tintoria impregna il vetro che, di decantazione in decantazione, resta alla fine completamente saturo e diventa luminoso come il sole.
Avete spinto la vostra generosità fino ad associarci a questa alta ed occulta conoscenza che vi appartiene di diritto e che è totalmente personale. Meglio di ogni altro ne avvertiamo tutto il peso e meglio di ogni altro siamo capaci di rimanervi eternamente riconoscenti. Sapete bene che le più belle frasi, le più eloquenti proteste non valgono quanto la commovente semplicità di queste parole: voi siete buono, ed è proprio per questa grande virtù che Dio ha posto sulla vostra fronte il diadema della vera regalità. Egli sa che farete un nobile uso dello scettro e dell'inestimabile appannaggio che comporta. Da molto tempo ormai Vi conosciamo come il mantello blu dei vostri amici nel bisogno; il mantello caritatevole si è improvvisamente allargato perché, ora, tutto l'azzurro del cielo, ed il suo grande sole coprono le vostre nobili spalle. Possiate gioire a lungo di questa grande e rara felicità per la gioia e la consolazione dei vostri amici, ed anche dei vostri nemici, perché la disgrazia cancella tutto ed ormai disponete della bacchetta magica che compie tutti i miracoli.
Mia moglie, con quell'inesplicabile intuizione delle persone sensibili, aveva fatto un sogno molto strano. Aveva visto un uomo avvolto in tutti i colori dell'iride ed innalzato fino al sole. La spiegazione non si è fatta attendere. Quale Meraviglia! Che bella e vittoriosa risposta alla mia lettera piena di dialettica e - teoricamente - esatta, ma quanto lontana, ancora, dal Vero, dal Reale! Ah! si potrebbe quasi affermare che chi ha salutato la stella del mattino ha perso per sempre l'uso della vista e della ragione, perché è affascinato da questa falsa luce e precipitato nelle tenebre... A meno che, come è stato per voi, un gran colpo di fortuna non lo allontani bruscamente dall'orlo del precipizio.
Non vedo l'ora di rivedervi, caro amico mio, di riascoltare il racconto delle ultime ore d'angoscia e di trionfo. Ma state pur certo, tanta è la gioia che stiamo provando e tale è la gratitudine che è nel nostro cuore, che non riuscirei mai ad esprimermi a parole. Alleluia!
Vi abbraccio e mi felicito con voi
Il vostro vecchio amico...

Chi sa compiere l'Opera con il solo mercurio ha trovato la perfezione, - cioè è stato illuminato ed ha compiuto il Magistero.
Forse, un passaggio avrà colpito, sorpreso o sconcertato il lettore attento e già in dimestichezza con i dati principali del problema ermetico. Si tratta di quel passaggio in cui l'intimo e saggio autore della missiva esclama:
"Ah! si potrebbe quasi affermare che chi ha salutato la stella del mattino ha perso per sempre l'uso della vista e della ragione, perché è affascinato da questa falsa luce ed è precipitato nelle tenebre".
Questa frase sembra in contraddizione con quello che abbiamo affermato, più di vent'anni fa, in uno studio sulla Toison d'Or1 (1 Vedi Alchimie. J.J. Pauvert editore, p. 137), e cioè che la stella è il grande segno dell'Opera; ch'essa suggella la materia filosofale; che essa fa sapere all'alchimista d'aver trovato non la luce dei pazzi ma quella dei saggi; che essa consacra la saggezza; e che è chiamata stella del mattino.
Il lettore avrà notato che precisavamo brevemente che l'astro ermetico è da principio ammirato nello specchio dell'arte o mercurio prima di mostrarsi sotto il cielo chimico, ch'esso rischiara in modo assai modesto?
Egualmente ligio ai doveri di carità e d'osservanza del segreto, anche se questo poteva farci passare per dei ferventi amanti del paradosso, avremmo potuto insistere già allora sul meraviglioso segreto e, a questo scopo, avremmo potuto ricopiare alcuni appunti scritti in un vecchio quaderno, dopo una delle dotte discussioni con Fulcanelli; queste discussioni, accompagnate da caffè freddo e zuccherato, erano la nostra maggiore delizia al tempo della nostra adolescenza, quand'eravamo assidui e studiosi, avidi di questo incomparabile sapere.
La nostra stella è unica, eppure è doppia. Sappiate distinguere la sua impronta reale dalla sua immagine, e noterete ch'essa brilla con più intensità alla luce del giorno che nelle tenebre della notte.
Dichiarazione, questa, che convalida e completa quella di Basilio Valentino (Douze Clefs) non meno categorica e solenne:
"Gli Dei hanno accordato agli uomini due stelle per condurli verso la grande Sapienza; osservale, o uomo! e segui con costanza il loro chiarore, perché è in esso che si trova la Saggezza".
E si tratta certo delle due stelle rappresentate in una delle piccole illustrazioni alchemiche del convento francescano di Cimiez, accompagnata da una leggenda in latino che riguarda la virtù salvatrice inerente l'irraggiamento notturno delle stelle.
"Cum luce salutem; con la luce, la salvezza".
In ogni caso, anche se si possiede solo in minima parte il significato filosofico e se si prende la briga di meditare sulle già citate parole di Adepti incontestabili, si avrà la chiave con cui Ciliani apre la porta del tempio. Ma se ancora non si comprende, allora si rileggano le opere di Fulcanelli e non si vada a cercare altrove un insegnamento che nessun altro libro potrebbe fornire con altrettanta precisione.
Esistono, dunque, due stelle, che, nonostante la poca verosimiglianza, formano in realtà un'unica stella. Quella che brilla sulla Vergine mistica, - che è contemporaneamente nostra madre ed il mare ermetico1 (1 In francese mère (madre) e mer (mare) si pronunciano allo stesso modo e sono dello stesso genere. Quindi notre mère (nostra madre), secondo la cabala fonetica, ha il significato di "nostro mare" (N.d.T)) - annuncia il concepimento e non è altro che il riflesso dell'altra che precede il miracoloso avvento del Figlio. Perché se la Vergine celeste è chiamata anche "stella matutina", stella del mattino; se si può contemplare su di lei lo splendore d'un segno divino; se la riconoscenza per questa sorgente di grazie procura gioia al cuore dell'artista; non si tratta, però, che d'una semplice immagine riflessa dallo specchio della Saggezza. Questa stella visibile ma inafferrabile, malgrado la sua importanza ed il posto che occupa nelle opere di vari autori, attesta la realtà dell'altra, di quella che incorona alla nascita il Bimbo divino. San Crisostomo ci fa sapere che il segno che condusse i Magi alla grotta di Betlemme, prima di sparire, si posò sul capo del Salvatore e lo circondò d'un'apoteosi di luce.

* * *

Insistiamo, e siamo certi che alcuni ce ne saranno riconoscenti: si tratta veramente d'un astro notturno la cui luce s'irraggia senza molto splendore al polo del cielo ermetico. E quindi ha poca importanza, senza lasciarsi ingannare dalle apparenze, che ci si informi sul cielo terrestre, di cui parla Venceslao Lavinius di Moravia e su cui insiste tanto Jacobus Tollius:
"Tu avrai compreso che cos'è il Cielo, di cui si parla nel mio piccolo libro, e per mezzo del quale sarà svelato il Cielo chimico. Perché
Questo cielo è immenso e riveste le campagne di una luce color di porpora.
In esso sono stati individuati i suoi astri ed il suo sole".
È indispensabile meditare a fondo che il cielo e la terra, sebbene nel caos cosmico originale siano stati mescolati, non sono differenti ne in sostanza ne in essenza, ma lo diventano in qualità, in quantità ed in virtù. La terra alchemica, caotica, inerte e sterile, non contiene forse, nonostante ciò, il cielo filosofico? Sarebbe dunque impossibile per l'artista, imitatore della Natura e della Grande Opera divina, separare nel suo piccolo mondo, con l'aiuto del fuoco segreto e dello spirito universale, le parti cristalline, velenose e pure, dalle parti dense, oscure e grossolane? Ma questa separazione deve essere compiuta, essa consiste nell'estrarre la luce dalle tenebre e nel realizzare il lavoro del primo dei Grandi Giorni di Salomone. Mediante questa separazione, possiamo sapere che cos'è la terra filosofale e che cosa gli Adepti hanno chiamato cielo dei Saggi.
Filalete che, nel suo libro Entrée ouverte au Palais ferme du Roi, si è soffermato più degli altri sulla pratica dell'Opera, fa cenno della stella ermetica, e conclude con la magia cosmica della sua apparizione:
"È il miracolo del mondo, l'unione delle virtù superiori con quelle inferiori; per questa ragione l'Onnipotente l'ha indicata con un segno straordinario. I Saggi l'hanno visto in Oriente, ne sono rimasti sbalorditi e subito dopo hanno saputo che un Re purissimo era venuto al mondo.
Quando tu avrai visto la sua stella, seguila fino alla Culla; là vedrai il Bel Bambino".
In seguito l'Adepto rivela come si deve procedere:
"Si prendano quattro parti del nostro drago igneo, che nasconde nel suo ventre il nostro Acciaio magico, e nove parti della nostra Calamita; mescolale insieme per mezzo di un ardente Vulcano, fino a ridurle sotto forma d'acqua minerale, su cui galleggerà una schiuma che deve essere eliminata. Getta la crosta esterna, prendi il nocciolo, purgalo tre volte con il fuoco e con il sale, cosa che si farà facilmente se Saturno ha visto la propria immagine nello specchio di Marte".
Infine Filatele aggiunge:
"E l'Onnipotente imprime il suo regale sigillo a quest'Opera e, così facendo, l'adorna in modo del tutto particolare”.

***

In verità, la stella non è un segno speciale del travaglio della Grande Opera. La si può incontrare in numerosi composti archimici, in procedimenti particolari ed in operazioni spagiriche di minore importanza. E non di meno essa ha sempre lo stesso valore indicativo di trasformazione, parziale o totale, dei corpi sui quali si è formata. Un esempio tipico ci è fornito da Jean-Frédéric Helvetius, in questo passaggio del suo Veau d'Or (Vitulus Aureus), che traduciamo:
"Un orefice di La Haye (cui nomen est Grillus), discepolo assai esperto in alchimia, ma uomo assai povero secondo il carattere proprio di questa scienza, qualche anno fa1 (1 Verso il 1664, anno dell'edizione principe e introvabile del Vilulus Aurvus.), chiese al mio carissimo amico Jean-Gaspard Knôttner, tintore di stoffe, un po' di spirito di sale preparato in modo non volgare. A Knôttner che gli chiedeva se questo spirito di sale speciale sarebbe stato utilizzato o meno per i metalli, Gril rispose che era per i metalli; in seguito, egli versò questo spirito di sale su del piombo che aveva posto in un recipiente di vetro, normalmente utilizzato per le marmellate o altri alimenti. Dopo circa due settimane, apparve in superficie una stranissima e brillante Stella argentea, che sembrava eseguita col compasso da un abile artista. Per cui Gril, pieno d'una immensa gioia, ci annunciò d'aver visto la stella visibile dei Filosofi; su di essa probabilmente aveva letto qualcosa in Basilio (Valentino). Io e molti altri uomini onorati, guardavamo con estrema ammirazione questa stella affiorante sullo spirito di sale, mentre sul fondo, il piombo restava color cenere e gonfio come una spugna. Poi, dopo sette o nove giorni, la parte umida dello spirito di sale evaporò a causa dei grandi calori di quel mese di luglio, e la stella toccò il fondo posandosi sul piombo spugnoso e terroso. Infine, Gril coppellò su di un coccio la parte di piombo cinereo che portava aderente su di sé la stella, e ottenne da una libbra di questo piombo, dodici ance d'argento di coppello e da queste dodici once ricavò ancora due once d'oro eccellente".
 Questa è la relazione di Helvetius. Noi la riferiamo soltanto per esemplificare la presenza del segno della stella in tutte le modificazioni interne dei corpi trattati filosoficamente. Però non vorremmo essere la causa di lavori infruttuosi e deludenti, intrapresi senza dubbio da qualche lettore entusiasta, basatosi sulla reputazione di Helvetius, sulla probità di testimoni oculari e, forse, anche sulla nostra costante cura di sincerità. Per questa ragione facciamo notare a coloro che vorrebbero rilevare il procedimento che in questo racconto mancano due dati fondamentali: la composizione chimica esatta dell'acido idrocloridrico e le operazioni preliminari effettuate sul metallo. Nessun chimico ci contraddirà se affermiamo che il piombo ordinario, qualunque esso sia, non assumerà mai l'aspetto di pietra pomice sottomettendolo a freddo all'azione dell'acido muriatico. Quindi per provocare la dilatazione del metallo sono necessarie parecchie operazioni preliminari: eliminare le scorie più grossolane e gli elementi perituri, per giungere poi, mediante la dovuta fermentazione, al rigonfiamento che procurerà quell'aspetto spugnoso, molle, che già manifesta una tendenza molto marcata per un profondo cambiamento delle proprietà specifiche.
Blaise de Vigenère e Nassagora, per esempio, sono d'accordo sull'opportunità d'una lunga cottura preliminare. Perché, se è vero che il piombo comune è morto, - perché ha patito la riduzione e perché, come dice Basilio Valentino, una grande fiamma divora un piccolo fuoco, - non è men vero che lo stesso metallo, nutrito con pazienza di sostanza ignea, si rianimerà, riprenderà poco per volta la sua attività spenta e da materia chimica inerte diventerà corpo filosofico vivente.

***

 Ci si potrà stupire che abbiamo trattato con approfondimento un solo punto della Dottrina, tanto da dedicargli la maggior parte di questa prefazione, e proprio per questa ragione, temiamo d'aver oltrepassato i limiti entro i quali, in genere, si tengono le prefazioni. Si può facilmente notare, però, quant'era logico che trattassimo quest'argomento che introduce direttamente al testo di Fulcanelli. Già dall'inizio del suo libro, infatti, il nostro Maestro s'è lungamente soffermato sul ruolo capitale della Stella, sulla Teofania minerale che annuncia, con certezza, la tangibile spiegazione del gran segreto sepolto negli edifici religiosi. Ecco appunto qual è Il Mistero delle Cattedrali, titolo dell'opera di cui curiamo, - dopo l'edizione del 1926, di soli 300 esemplari, - una seconda edizione arricchita da tre disegni di Julien Champagne e da alcune note originali di Fulcanelli, raccolte e pubblicate tali e quali, senza nessuna aggiunta né il più piccolo cambiamento. Esse sono dedicate ad un angoscioso dilemma, che trattenne lungamente il Maestro alla sua scrivania, e sul quale diremo qualcosa a proposito delle Dimore Filosofali.
Insomma, se si dovesse giustificare il merito del Mistero delle Cattedrali, basterebbe segnalare che questo libro ha posto nuovamente in luce la cabala fonetica i cui principii e la cui applicazione erano caduti nel più totale oblio. Dopo questo insegnamento dettagliato e preciso, dopo le brevi considerazioni che abbiamo fatto a proposito del centauro, dell’uomo-cavallo di Plessis-Bourré, nel libro Due Dimore di alchimisti (Deux Logis alchimiques), non si dovrebbe più confondere la lingua matrice, l'energico idioma facilmente capito anche se mai parlato e, sempre secondo Cyrano Bergerac, l'istinto o la voce della natura con le trasposizioni, le inversioni, le sostituzioni e i calcoli astrusi quanto arbitrari della Kabbala ebrea. Ecco perché è necessario distinguere tra i due vocaboli cabala e Kabbala, per poterli usare a ragion veduta: il primo deriva da (parola greca) o dal latino caballus, cavallo; il secondo dall'ebreo kabbalah che significa tradizione. Inoltre non si dovrà cercare il pretesto, nei sensi figurati che vengono ampliati per analogia, per parlare di imbroglio, maneggio o intrigo, rifiutando così, alla parola cabala, l'uso che essa soltanto può giustificare e che Fulcanelli ha magistralmente confermato, ritrovando la chiave perduta della Gaia Scienza, della Lingua degli Dei o degli Uccelli. Gli stessi idiomi che Jonathan Swift, il singolare Decano di San Patrizio, conosceva a fondo e usava a suo piacimento, con profonda scienza e virtuosismo.

SAVIGNIES. agosto 1957


PREFAZIONE ALLA
 TERZA EDIZIONE

“Mieux vault vivre gros bureaux
Povre, qu’avoir est seigneur
Et pourrir soubz riches tombeaux!
Qu'avoir esté seigneur! Que dys?
Seigneur, las! et ne l'est il mais?
Selon les davitiques dit,
Son lieu ne congnoistras jamais”.
Francois Villon Le Testament
XXXVI e XXXVII

Era necessario, e soprattutto era un'elementare cura per Ìa salvezza della filosofia ermetica, che Il Mistero delle Cattedrali comparisse nuovamente. Tramite l'editore Jean-Jacques Pauvert, ecco pronta una nuova edizione, preparata con lo stile e l'accuratezza che già gli conosciamo e che, per il bene degli studiosi, soddisfa sempre la duplice preoccupazione di contenere, nel senso migliore di questo vocabolo, la perfezione dell'esecuzione ed il prezzo di vendita al lettore. Due condizioni, queste, intrinseche e fondamentali, ed assai apprezzate dall'esigente Verità che Jean-Jacques Pauvert ha voluto avvicinare maggiormente, illustrando la prima opera del Maestro con la fotografia perfetta di quelle sculture che prima erano presentate con i disegni di Julien Champagne. E così la precisione dell'emulsione fotografica, permettendo di confrontare le opere originali, proclama la coscienza e l'abilità di quell'eccellente artista che conobbe Fulcanelli nel 1905, cioè dieci anni prima che noi ricevessimo lo stesso inestimabile privilegio, tanto oneroso e troppo spesso invidiato.

***

L'alchimia per l'uomo molto probabilmente non è altro che la ricerca ed il risveglio della Vita segretamente assopitasi sotto il pesante involucro dell'essere e la grezza scorza delle cose, ricerca e risveglio derivanti da un certo stato d'animo molto prossimo alla grazia reale ed efficace. Sui due piani universali, dove siedono insieme la materia e lo spirito, il processo è assoluto e consiste in una permanente purificazione fino alla purificazione più completa.
A questo scopo niente è più utile, per quel che riguarda il modo d'operare, dell'apoftegma antico e così preciso nella sua imperativa concisione: Salve et coagula; dissolvi e coagula. La tecnica semplice e lineare, esige sincerità, decisione e pazienza, ed ha bisogno d'immaginazione, ahimè! ormai quasi totalmente scomparsa in un gran numero di persone, in questa nostra epoca dominata da una saturazione sterilizzante ed aggressiva. Sono pochi quelli che si dedicano all'idea vivente, all'immagine fruttuosa, al simbolo inseparabile da qualsiasi elaborazione filosofale o avventura poetica, aprendosi a poco a poco, in lento progresso, ad una luce più grande ed alla conoscenza.
 Molti alchimisti hanno detto, in particolare la Turba attraverso le parole di Baleus, che "la madre ha pietà del proprio figlio, ma egli è molto duro nei suoi riguardi”. Il dramma familiare si svolge m modo positivo in seno al microcosmo alchimico-fisico, di modo che si può sperare, per il mondo terrestre e la sua umanità, che la Natura finalmente perdoni gli uomini e si adatti, nel miglior modo possibile, alle torture ch'essi le fanno continuamente subire.

***

Ma c'è dell'altro ben più grave: Mentre la Franc-Macomerie cerca sempre la parola perduta (verbum dimissum), la Chiesa universale (parola greca katholiké), che posside questo Verbo, lo sta abbandonando per abbracciare l'ecumenismo del diavolo. E niente favorisce di più quest'errore inespiabile di un clero, troppo spesso ignorante, che obbedisce tremando all'impulso errato, ma cosìddetto progressista suggerito dalle forze occulte che mirano soltanto a distruggere l'opera di Pietro. Il rituale magico della messa latina, profondamente sconvolto, ha perso ogni valore, ed ora è perfettamente intonato con il cappello floscio ed il completo scuro adottato da alcuni preti, felicissimi di questo travestimento che sembra una promettente tappa verso l'abro gazione del celibato filosofico...
In seguito a questa politica d'incessante abbandono, s'installa la funesta eresia accompagnata dalla raziocinante vanità ed il profondo disprezzo delle leggi più misteriose. Tra quest'ultime, l'ineluttabile necessità della putrefazione feconda, per qualsiasi materia, affinché la vita possa continuare sotto la fallace apparenza del nulla e della morte. Conoscendo la fase transitoria, tenebrosa e segreta, che spalanca delle straordinarie possibilità all'alchimia operativa, non è forse terribile che la Chiesa acconsenta, ormai, a quest'atroce cremazione che una volta era senz'altro respinta?
Eppure quale immenso orizzonte spalanca la parabola del grano affidato alla terra, riportata da San Giovanni:
"In verità, in verità vi dico, se il granello di frumento, cadendo a terra, non muore, rimane solo; ma se muore, porta molti frutti" (XII, 24).
E similmente, dello stesso discepolo prediletto, quest'altra preziosa indicazione del Maestro, a proposito di Lazzaro, sul fatto che la putrefazione del corpo non sta a significare la totale abolizione della vita:
“Gesù dice: Levate la pietra. Marta, sorella del morto, gli dice: Signore, ormai manda cattivo odore; perché è là sotto da quattro giorni. Gesù gli dice: Non ti ho forse detto che, se credi, vedrai la gloria di Dio?" (XI, 39, 40).
Dimenticando la Verità ermetica che assicurò la sua fondazione, la Chiesa, essendole stato chiesto il suo parere circa l'incinerazione dei cadaveri, prende in prestito, senza alcuno sforzo, la sua pessima giustificazione alla scienza del bene e del male, secondo la quale la decomposizione dei corpi, nei cimiteri sempre più numerosi, sarebbe una minaccia d'infezione e d'epidemia per gli abitanti che respirano l'aria dei dintorni. Argomento assai specioso, che fa per lo meno sorridere, soprattutto quando si sa che fu proposto, molto seriamente, più d'un secolo fa, mentre era fiorente il gretto positivismo dei Comte e dei Littré! Ed anche commovente sollecitudine che, in questa nostra epoca benedetta, non fu usata al tempo di due ecatombi, grandiose per il numero dei morti e per la durata, ed avvenute su un territorio assai ristretto, nel quale l'inumazione era sempre in ritardo e, spesso, molto dopo il tempo stabilito e quasi mai alla profondità regolamentare.
In contrasto a ciò, è il momento di ricordare l'osservazione, macabra e singolare, quale si dedicarono, all'inizio del Secondo Impero, e con uno spirito assai differente, con la pazienza e la costanza d'un'altra epoca, i due celebri medici e tossicologi Mathieu-Joseph Orfila e Marie-Guillaume Devergie. Osservazione sulla lenta e progressiva decomposizione del corpo umano; ecco la fine dell'esperienza condotta, fino ad allora, nel fetore e nell'intensa proliferazione dei vibrioni:
 "L'odore diminuisce gradualmente; alla fine si arriva ad uno stadio nel quale tutte le parti molli sono sparse sul suolo formando un ammasso fangoso, nerastro e con un odore che ha qualcosa di aromatico".
 Per quel che riguarda la trasformazione del fetore in profumo, si deve notare la sorprendente somiglianza con quello che dichiararono gli antichi Maestri, a riguardo della Grande Opera fisica. In particolare due di essi, Morien e Raimondo Lullo precisano che dopo l'odore fetido (odor teter) della dissoluzione oscura, viene il profumo più soave, perché è il profumo delle proprietà di vita e calore (quia et vitae proprius est et caloris).

***

 Dopo ciò che abbiamo abbozzato, non si deve forse essere timorosi, visto che già intorno a noi, al livello in cui siamo, possono influire alcune testimonianze contestabili od argomentazioni speciose? Propensioni deplorevoli che mostrano, invariabilmente, l'invidia e la mediocrità e di cui ci sentiamo in dovere di distruggere, oggi, gli effetti negativi e persistenti. Ci riferiamo con questo ad una rettifica assai obbiettiva del nostro Maestro Fulcanelli che studiava, al museo di Cluny, la statua di Marcello, vescovo di Parigi, statua che una volta era posta a Notre-Dame, sul pilastro mediano del portale di sant'Anna, prima che gli architetti Viollet-le-Duc e Lassus la sostituissero, verso il 1850, con una copia soddisfacente. Quindi l'Adepto del Mistero delle Cattedrali fu portato a correggere gli errori commessi da Louis-Francois Cambrici. Eppure costui avrebbe potuto esaminare la scultura originale, sempre al suo posto nella cattedrale, dall'inizio del XIV secolo, ed invece scrisse, sotto il re Carlo X, una breve e fastidiosa descrizione:

«Questo vescovo porta un dito alla bocca, per dire a coloro che lo vedono e che sono venuti a conoscenza di ciò ch'egli rappresenta... Se riconoscete ed indovinate che cosa io voglio significare con questo geroglifico, tacete!... Non dite niente!» (Cours de Philosophic her-métique ou d'alchimie en dix-neuf lecons. Parigi, Lacour e Maistrasse 1843).
Nell'opera di Cambriel, queste righe sono accompagnate dallo schizzo inesperto che le ispirò o che fu da esse ispirato. Siamo del pa­rere di Fulcanelli quando egli afferma di non riuscire ad immaginare che due osservatori, cioè lo scrittore ed il disegnatore, siano stati vit­time, in due momenti diversi, dello stesso errore. Sul disegno stam­pato nel libro, il santo vescovo è barbuto, con evidente metacronismo, ha il capo coperto da una mitra decorata da quattro piccole croci e tiene, con la mano sinistra, un corto pastorale appoggiato alla spalla. Ed infine, imperturbabile, alza l'indice al livello del mento nell'espressivo gesto mimico del segreto e della raccomandazione di silenzio.
Nella sua conclusione Fulcanelli scrive: «Il controllo è facile perché possediamo l'opera originale e quindi l'inganno salta subito agli occhi. Il nostro santo è, secondo l'usanza medioevale, assoluta­mente glabro; la sua mitra, molto semplice, non ha nessun ornamento, il pastorale, tenuto dalla sua mano sinistra, appoggia la sua estremità inferiore sulla gola del drago. Per quel che riguarda il famoso gesto dei personaggi del Mutus Liber e di Arpocrate, esso esiste solo nel­l'eccessiva fantasia di Cambriel. San Marcello è rappresentato bene­dicente, in un atteggiamento pieno di nobiltà, con la fronte inclinata, l'avambraccio piegato, la mano all'altezza della spalla, l'indice ed il medio alzati».

* * *

Come s'è appena visto, la questione, che in quest'opera è l'ogget­to di tutto il paragrafo VII del capitolo PARIGI, era quindi comple­tamente risolta; ed il lettore, volendo, potrebbe prenderne visione per intero già da ora. Era stato sventato ogni inganno e la verità perfet­tamente chiarita, quando Emile-Jules Grillot de Givry, circa tre anni dopo, scrisse, nel suo Museo degli Stregoni, queste righe a proposito del pilastro di mezzo del portale sud di Notre-Dame:
Sfortunatamente, per quest'immagine, il presunto San Marcello non ha ancora il bastone episcopale di cui parla Grillot, decisamente fuori strada tanto da giungere fino ad un'impossibile esagerazione. Al massimo si può distinguere nella mano sinistra del prelato, beffardo e provvisto d'una fluentissima barba, una specie di grosso bastone, sprovvisto all'estremità superiore della voluta ornata che avrebbe potuto farlo diventare un pastorale ecclesiastico.
Evidentemente era importante che, dal testo e dall'illustrazione, si deducesse che questa scultura del XVI secolo - opportunamente inventata - fosse quella che Cambrici "passando un giorno davanti alla chiesa di Notre-Dame de Paris, esaminò con molta attenzione", dato che l'autore dichiara, proprio sulla copertina del suo Corso di Filosofia, che il libro fu terminato nel gennaio 1929. Così la descrizione ed il disegno, opera dell'alchimista di Saint-Paul-de-Fenouillet, trovano un credito e, nello stesso tempo, si completano restando nell'errore; mentre quell'irritante Fulcanelli, troppo scrupoloso, esatto ed onesto, era accusato d'ignoranza e di inconcepibile disprezzo. Invece, non è così facile concludere in questo modo; infatti lo si constata subito sull'illustrazione di François Cambrici, nella quale il vescovo porta, sì, un bastone accorciato, ma completo dell'abaco e della voluta a spirale.

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Non ci fermiamo alla spiegazione di Grillot de Givry, assai ingegnosa ma un po' elementare dell'accorciamento della verga pastorale (virgo pastoralis); ed invece, non ci stanchiamo di denunciare questa stranezza, che egli. cioè, si voleva riferire evidentemente, ma senza nominarla espressamente! - innocentemente preciserà Jean Reyor, volendo significare che ciò era avvenuto in modo del tutto fortuito - alla pertinente correzione che sta nel Mistero delle Cattedrali; infatti è impossibile che una mente così sveglia e curiosa come la sua non ne sia venuta a conoscenza. Questo primo libro di Fulcanelli era in circolazione dal giugno 1926, mentre Il Museo degli Stregoni uscì nel febbraio 1929, con la data: Parigi, 20 novembre 1928; l'autore poi morì improvvisamente una settimana dopo la pubblicazione del libro.
A quell'epoca, questo fatto, che non ci sembrò del tutto onesto, ci turbò e ci sorprese lasciandoci sconcertati. Sicuramente non ne avremmo mai parlato se dopo Marcel Clavelle - alias Jean Reyor - recentemente Bernard Husson non avesse provato il bisogno inspiegabile, dopo trentadue anni, di rintuzzare il colpo e di venire alla riscossa. Riporteremo qui solo la tracotante opinione del primo, - pubblicata nel Voile d'Isis del novembre 1932, - perché il secondo se n'è appropriato interamente, senza neanche riflettere, e senza il più piccolo scrupolo: in verità, noi avremmo preferito che ne dimostrasse almeno un po' nei confronti dell'Adepto ammirevole, nostro comune Maestro:
"Tutti condividono la virtuosa indignazione di Fulcanelli! Ma ciò che è soprattutto riprovevole è la leggerezza dimostrata da questo scrittore in tale circostanza. Chiariamo adesso che non c'erano gli elementi per accusare Cambrici di "trucco", di "truffa" e di "impudenza".
"Verifichiamo punto per punto: il pilastro che attualmente si trova nel portale di Notre-Dame è una riproduzione moderna che fa parte del restauro degli architetti Lassus e Viollet-le-Duc, eseguito verso il 1860. Il pilastro originale è relegato nel Museo di Cluny. Però dobbiamo dire che il pilastro attuale riproduce assai fedelmente, nell'insieme, quello del XIV secolo, tranne qualche motivo decorativo del basamento. In ogni caso né l'uno né l'altro corrispondono alla descrizione e all'illustrazione pubblicate da Cambrici ed innocentemente riprodotte da un noto occultista. Eppure Cambrici non ha affatto cercato d'ingannare i suoi lettori. Egli ha descritto e fatto disegnare fedelmente il pilastro, quale lo potevano vedere tutti i Parigini del 1843. Ciò vuol dire che esiste un terzo pilastro di San Marcello, che è una riproduzione infedele del primo, ed è proprio questo pilastro che fu sostituito all'incirca nel 1860 con la copia più accurata ed esatta che oggi possiamo vedere. E quell'infedele riproduzione ha proprio tutte le caratteristiche segnalate dal bravo Cambrici. Egli non è assolutamente un truffatore, ma al contrario è stato ingannato da una copia poco scrupolosa, quindi la sua buona fede è del tutto fuori causa e questo è quello che più ci preme di stabilire".

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Per meglio affermare la sua opinione Grillot de Givry - ti noto occultista di cui parlava Jean Reyor - nel suo Museo degli Stregoni mostra senza alcuna referenza, abbiamo già visto come, una prova fotografica la cui riproduzione lascia vedere la recente fattura. E, in fondo, quale può essere il valore esatto di questo documento di cui si servì come prova nel suo libro per rigettare, con tutta l'apparenza della irrefutabilità, il giudizio imparziale di Fulcanelli a proposito di François Cambrici; giudizio, forse, severo ma certamente ben fondato e che invece Grillot de Givry, come sappiamo, si guardò bene dal segnalare. Occultista nel senso assoluto, si mostrò altrettanto discreto per quel che riguarda la provenienza della sua sensazionale fotografia...
Non potrebbe forse essere successo, più semplicemente, che questa statua, che starebbe al posto di quella tolta nel secolo scorso all'epoca dei lavori di restauro di Viollet-le-Duc, fosse stata presa in un altro posto e non a Notre-Dame de Paris, e che quindi sia addirittura il ritratto d'un personaggio dell'antica Lutezio e non dell'arcivescovo Marcello?...
Nell'iconografìa cristiana numerosi santi sono raffigurati con il drago vicino, aggredente o sottomesso, e tra questi possiamo nominare: Giovanni Evangelista, Giacomo Maggiore, Filippo, Michele, Giorgio e Patrizio. Eppure, san Marcello è il solo che, col suo bastone, tocchi la testa del mostro, grazie al rispetto che pittori e scultori del passato ebbero sempre per la sua leggenda. Questa leggenda è molto ricca, e tra gli ultimi fatti della vita del vescovo si racconta questo avvenimento (Inter novissima ejus opera hoc annumeratur), riportato dal Padre Gerard Dubois d'Orléans (Gerardo Dubois Aurelianensi), nella sua Storia della Chiesa di Parigi (in Historia Ecclesiae Parisiensis) che noi adesso traduciamo dal testo latino riassumendo:
«Una dama, più illustre per nobiltà di nascita che per la sua condotta e la fama di buona reputazione, terminò i giorni che le erano destinati, poi dopo un pomposo funerale, come si conveniva, fu sepolta solennemente. Per punirla d'aver violato il letto nuziale, un serpente terribile s'avvicinò alla sepoltura della donna, si nutrì delle sue membra e del suo cadavere del quale aveva corrotto l'anima con i suoi funesti sibili. Esso non permette ch'ella si riposi nella sua tomba. Ma avendo sentito del rumore, i servi della donna defunta furono assai spaventati e cominciò ad accorrere la popolazione della città per guardare lo spettacolo, e molti erano allarmati alla vista dell'enorme animale...
«Il beato vescovo, avvertito, esce in mezzo al popolo, e ordina che i cittadini si fermino e restino a guardare. Egli stesso, sema timore, avanza verso il drago... che, come un supplicante, si prosterna davanti alle ginocchia del santo vescovo, sembra fargli le feste e chiedergli grazia. Allora Marcello, percuotendolo alla testa col suo bastone, gettò su di lui la sua stola (Tum Marcellus caput ejus baculo percutiens, in eum orarium1 (1 Orarium, quod vulgo stola dicitur (Glossarium Cangii). Orarium, ciò che generalmente è chiamato stola (Glossario di Du Cange) injecit); lo condusse poi in giro per due o tre miglia, seguito dal popolo; egli traeva (extrahebat) la sua marcia solenne davanti a tutti i cittadini. Poi si rivolse all'animale e gli comandò che d'allora in poi restasse sempre nel deserto o che andasse a gettarsi nel mare...».
Sia detto, di sfuggita, che non c'è neanche bisogno di sottolineare l'allegoria ermetica nella quale si distinguono la via secca e la via umida. Questo racconto combacia perfettamente col 50° emblema di Michele Maier nella sua Atalanta Fugiens, nel quale si vede un drago che avvinghia una florida donna, vestita e nella pienezza della maturità, che giace inerte nella sua fossa verosimilmente violata.
* * *

Ma torniamo alla presunta statua di San Marcello, discepolo e successore di Prudenzio, che Grillot de Givry pretende sia stata messa, verso la metà del XVI secolo, sul pilastro mediano del portale sud, a Notre-Dame, cioè al posto dell'ammirevole originale, che è invece conservato sull'altra riva del fiume, al Museo di Cluny. Precisiamo che la statua ermetica è adesso conservata nella torre settentrionale della sua primitiva dimora.
Per poterci schierare nettamente contro l'affermazione in questione, priva d'ogni fondamento, possediamo l'irrecusabile testimonianza del signor Esprit Gobineau de Montluisant, gentiluomo di Chartres, tratta dal suo Explicatione très-curieuse des Enigmes et Figures hierogliphiques, physiques, qui sont au Grand Portail de l'Eglise Cathedrale et Metropolitaine de Notre Dame de Paris. Ed ecco, dal nostro testimone oculare, che «osserva attentamente» le sculture, la prova che il tutto tondo, trasferito in via Sommerard da Viollet-le-Duc, era sempre al suo posto, sul pilastro mediano del portale destro il «mercoledì 20 Maggio 1640, vigilia dell'Ascensione del nostro Salvatore Gesù Cristo»:
«Sul pilastro, c'è ancora l'immagine d'un Vescovo, che mette il suo Pastorale nelle fauci d'un drago, il quale è sotto i suoi piedi e sembra uscire dall'acqua, viste le onde che vi sono scolpite, e tra queste onde appare la testa d'un Re che ha una corona triplice, e che sembra annegare tra le onde e poi riemergere».
Questa storica descrizione, chiara e decisiva, non scosse Marcel Clavelle (pseudonimo di Jean Reyor), che però fu obbligato, per cavarsi d'impaccio, a trasferire sotto Luigi XIV, la nascita della statua sconosciuta, finché Grillot, improvvisamente, in buona fede o in malafede, non l'inventò addirittura. Probabilmente disturbato dalla medesima prova evidente, Bernard Husson non se la cava in modo migliore, proponendo, semplicisticamente che XVI secolo, a pag. 407 del Museo degli Stregoni, sia un refuso tipografico, ma per fortuna, corretto nella leggenda da XVII secolo, cosa che invece non è, come si è constatato prima.

***

E ancora, lasciando perdere l'esattezza, non significa torse inconcepibile irriflessione ammettere che un restauratore, all'epoca dei Valois, perseguendo una sua iniziativa, allo stesso tempo colpevole e singolare, abbia portato in un museo, inesistente ai suoi tempi, la magnifica statua? Essa invece si trova soltanto da poco più d'un secolo in una sala delle Terme, scoperte in seguito ad alcuni lavori di ricostruzione del bel palazzo opera di Jacques d'Amboise. E quanto sembra strano il seguito della storia; cioè che quell'architetto del XVI secolo abbia mostrato, nei riguardi di quella statua gotica ed imberbe, che egli avrebbe spostato, più cura nel conservarla, di quanto abbia mostrato lo scrupoloso Viollet-le-Duc, trecento anni dopo, per il vescovo barbuto, opera d'un suo lontano ed anonimo collega!
Che Marcel Clavelle e Bernard Husson, uno dopo l'altro, si siano scioccamente lasciati accecare dall'intenso piacere di cogliere in fallo il grande Fulcanelli, passi pure; ma che Grillot de Givry sin dall'inizio non abbia notato la monumentale illogicità della sua sconsiderata confutazione, è una cosa che non sì riesce a comprendere.
Quindi, il lettore sarà certo d'accordo con noi sul fatto che, in occasione della terza edizione del Mistero delle Cattedrali, era importantissimo che fosse chiaramente stabilita la fondatezza del rimprovero di Fulcanelli, nei riguardi di Cambrici e che, di conseguenza, fosse eliminato il pietoso equivoco creato da Grillot de Givry; o, se si preferisce, che fosse realmente e definitivamente chiarita una controversia che noi sapevamo tendenziosa e priva di un vero scopo.

Savignies, luglio 1964

Eugène CANSELIET




IL MISTERO

DELLE CATTEDRALI

La più forte impressione della nostra prima giovinezza, - avevamo sette anni, - quella della quale conserviamo ancora un vivido ricordo, fu l'emozione provocata dalla vista d'una cattedrale gotica al nostro animo fanciullo. Fummo immediatamente trasportati, estasiati, colmi d'ammirazione, incapaci di staccarci dall'attrazione del meraviglioso, dalla magia dello splendore, dell'immensità, della vertigine che si sprigionavano da quell'opera più divina che umana.
Da allora la visione si è trasformata, ma l'impressione è rimasta. E se la familiarità ha modificato il carattere primaverile e patetico di quel primo contatto, non abbiamo mai potuto impedirci di essere quasi rapiti in estasi davanti a quei meravigliosi libri figurati innalzati sui nostri sagrati e che dispiegano fino al cielo i loro fogli di pietra scolpita.
Con quali parole, con quali mezzi potremmo esprimere loro la nostra ammirazione, il sentimento di riconoscenza e tutti i sentimenti di gratitudine dì cui è colmo il nostro cuore per tutto ciò che essi ci hanno insegnato a gustare, a riconoscere, a scoprire, anche se essi non sono altro che dei muti capolavori, veri maestri senza parole e senza voce?
Senza parole e senza voce? - Cosa stiamo dicendo! Se questi libri di pietra hanno le loro pietre scolpite - frasi in bassorilievi e pensieri in ogive - non per questo non si esprimono per mezzo dello spirito imperituro che proviene dalle loro pagine. Libri più che chiari dei loro fratelli minori, - manoscritti e stampati, posseggono su di essi il vantaggio di tradurre un unico significato, assoluto e di facile espressione, dall'interpretazione ingenua e pittoresca, un significato purgato dalle sottigliezze, dalle allusioni, dagli equivoci letterari.
«La lingua di pietra parlata da questa nuova arte, dice assai veridicamente J. F. Colfs1 (1 J. F. Colfs, La Filiation généalogique de toutes les Ecoles gothiques. Parigi,Baudry,1884.), è contemporaneamente chiara e sublime. E quindi essa parla all'anima dei più umili come a quella dei più colti. Che lingua patetica il gotico delle pietre! Infatti è una lingua tanto patetica che le canzoni d'un Orlando di Lassus o di un Palestrina, la musica per organo d'un Haendel o d'un Frescobaldi, l'orchestrazione d'un Beethoven o d'un Cherubini e, ciò che è ancora più grande di tutto questo, il semplice e severo canto gregoriano, che è forse il solo vero canto, non si aggiungono che in sovrappiù alle emozioni che la cattedrale, da sola, produce. Guai a coloro ai quali non piace l'architettura gotica, o, per lo meno, compiangiamoli come persone che non hanno ereditato un cuore».
 Santuario della Tradizione, della Scienza e dell'Arte, la cattedrale non dev'essere guardata come un'opera dedicata unicamente alla gloria del cristianesimo, ma piuttosto come un vasto agglomerato d'idee, di tendenze, di credo popolari, un insieme perfetto al quale ci si può riferire senza timore ogni volta che c'è bisogno di approfondire il pensiero degli antenati in qualsiasi campo : religioso, laico, filosofico o sociale.
Le volte ardite, la nobiltà delle navate, l'ampiezza delle proporzioni e la bellezza dell'esecuzione fanno della cattedrale un'opera originale, dall'armonia incomparabile, ma che non doveva essere completamente dedicata all'esercizio del culto.
 Se, sotto la luce spettrale e policroma delle alte vetrate, il racco­glimento e il silenzio invitano alla preghiera e predispongono alla me­ditazione, in compenso l'apparato, la struttura e gli ornamenti, ema­nano e riflettono, con la loro straordinaria potenza, delle sensazioni i meno edificanti, uno spirito più laico e, diciamo pure il termine, quasi pagano.
Si possono discernere, oltre all'ardente ispirazione nata da una solida fede, le mille preoccupazioni della grande anima popolare, la affermazione della sua coscienza, della sua propria volontà, l'imma­gine del suo pensiero, di tutto ciò ch'esso ha di complesso, d'astratto, d'essenziale, di sovrano.
Se si va nell'edificio per assistere alle funzioni religiose, se si entra al seguito d'un corteo funebre o in mezzo all'allegro corteo d'una festa solenne, la calca è grande anche in ben altre circostanze. Si tengono delle assemblee politiche presiedute dal vescovo; si discute il prezzo del frumento e del bestiame; i tessitori stabiliscono il prezzo delle stoffe; si accorre anche per cercare conforto, per domandare con­siglio, per implorare perdono. E non ci sono corporazioni che non facciano benedire il capolavoro del nuovo confratello, che non si riu­niscano una volta l'anno sotto la protezione del loro santo patrono.
Durante tutto il bel periodo medioevale furono conservate anche altre cerimonie, assai gradite al popolo. C'era la Festa dei Pazzi - o dei Saggi, - «kermesse» ermetica processionale che partiva dalla chiesa col suo papa, i suoi dignitari, i suoi fedeli, il suo popolo - il popolo del medioevo, rumoroso, malizioso, scherzoso, pieno di tra­boccante vitalità, di entusiasmo e di foga - e si riversava in città... Ilare satira d'un clero ignorante, sottoposto all'autorità della Scienza nascosta, schiacciato sotto il peso d'una indiscutibile superiorità. Ah! La Festa dei Pazzi, col suo carro del Trionfo di Bacco, trainato da un centauro e una centauressa, ambedue nudi come il dio, che era accompagnato dal grande Pan; carnevale osceno che s'impossessava delle navate ogivali! Ninfe e naiadi uscenti dal bagno; divinità del­l'Olimpo, senza nubi e senza tutù: Giunone, Diana, Venere, Latona si davano appuntamento alla cattedrale per sentire la messa! E quale messa! Composta dall'iniziato Pierre de Corbeil, arcivescovo di Sens, secondo un rituale pagano, e durante la quale le fedeli dell'anno 1220 gridavano il grido di gioia dei baccanali: Evohè! Evohè! E gli sco­lari rispondevano con entusiasmo delirante:

Haec est darà dies clararum darà dierum!
Haec est festa dies fesTarum festa dierum!1
(1 Questo giorno è celebre tra Ì giorni celebri!
Questo giorno è giorno di festa tra i giorni dì festa!)

C'era anche la Festa dell'Asino, quasi altrettanto fastosa della precedente, con l'ingresso trionfale, sotto i sacri archetti, di Mastro Aliboron, il cui zoccolo, un tempo, calpestava la pavimentazione giudea di Gerusalemme. Si celebrava il nostro glorioso Cristoforo, con una funzione speciale con cui si esaltava, dopo l'epistola, quella potenza asinina che ha procurato alla Chiesa l'oro dell'Arabia, l'incenso e la mirra del paese di Saba. Era questa una parodia grottesca che il prete, incapace di comprendere, accettava in silenzio, con la fronte china sotto il peso del ridicolo sparso in abbondanza, da quei mistificatori del paese di Saba, o Caba, icabalisti in persona! È lo scalpello degli imaigiers2 (2 Letteralmente fabbricanti d'immagini. N.d.T.) del tempo, che ci da la conferma di quelle strane feste. Infatti, scrive il Witkowski3 (3 G. J. Wilkowski. L'Art profane à l'Eglise. Etranger. Parigi, Schemit, 1908, p. 35.) descrivendo la navata di Notre-Dame de Strasbourg, «il bassorilievo di uno dei capitelli dei gran di pilastri riproduce una processione satirica nella quale si distingue un maialetto che porta un'acquasantiera, seguito da alcuni asini vestiti in abiti sacerdotali e da scimmie che portano diversi attributi della religione ed anche da una volpe chiusa in gabbia. È la Processione della Volpe, o della Festa dell'Asino». Aggiungiamo che una scena identica, miniata, si trova al folio 40 del manoscritto n. 5055 della Biblioteca nazionale.
C'erano, infine, quelle bizzarre usanze dalle quali traspirava un significato (ermetico, talvolta molto puro; usanze che ogni anno si rinnovellavano ed avevano come teatro la chiesa gotica, tra esse la Flagellazione dell'Alleluia, nella quale i chierichetti spingevano, a gran colpi di frusta, i loro sabot4 5 (4 Trottola dal profilo di Tau o di Croce. Nella cabala, sabot equivale a cabot o chabot, lo chat bottè (gatto con gli stivali) dei Racconti di mia Madre l'Oca. La focaccia dell'Epifania talvolta contiene un sabot invece della fava. 5 Sabot: zoccolo N.d.T.) rumorosi fuori dalla navata della chiesa cattedrale di Langres; c'era poi il Convoi de Carême-Prenant; la DiablerIe de Chaumont; le processioni e i banchetti della Infanterie dijonnaise, ultima eco della Festa dei Pazzi, con la sua Madre Pazza, i suoi diplomi rabelaisiani, il suo stendardo sul quale due fratelli, uno a rovescio dell'altro, si divertivano a scoprirsi le natiche; e lo strano Gioco della Pelota che era giocato nella navata di Saint-Etienne, cattedrale d'Auxerre, e che scomparve, poi, verso il 1538; ecc...

II

La cattedrale è anche l’ospitale aisilo di tutti i disgraziati. I malati che venivano a Notre-Dame de Paris, per chièdere a Dio il lenimento delle loro sofferenze, vi restavano fino alla completa guarigione. Era assegnata loro una cappella, posta vicino alla seconda porta ed illuminata da sei lampade. Qui essi passavano la notte. I medici visitavano i malati, proprio all'ingresso della basilica, intorno all'acquasantiera. Ed è ancora là che la Facoltà di medicina, nel XIII secolo, dopo essere uscita dall'Università per vivere indipendente, venne a tenere le sue assemblee, stabilendovisi fino al 1454, data della sua ultima riunione, convocata da Jacques Desparts.
Essa è anche l'asilo inviolabile dei perseguitati e il sepolcro dei defunti illustri. È la città nella città, il centro intellettuale e morale del tessuto urbano, cuore dell'attività pubblica, apoteosi del pensiero, della scienza e dell'arte.
Con l'abbondante fioritura della sua decorazione, con la varietà dei soggetti e delle scene che l'adornano, la cattedrale si presenta come un'enciclopedia di tutto il sapere medioevale, perfettamente completa ed assai variata, talvolta ingenua, talvolta nobile, ma sempre vivente. Queste sfingi di pietra sono così degli educatori, degli iniziatori di prim'ordine.
Da secoli il guardiano di quest'ancestrale patrimonio è un vero e proprio popolo di irsute chimere, di buffoni. di figurine, di mascheroni, di minacciosi doccioni figurati - draghi, vampiri e tarasche1 (1 Specie di manichino raffigurante un animale mostmoso che veniva portato in processione alla Pentecoste in alcune città del Sud della Francia, in particolare a Tarascona N.d.T.)
L'arte e la scienza, un tempo concentrate nei grandi monasteri, fuggono dai laboratori, corrono all'edificio, si avvinghiano ai campanili, ai pinnacoli, agli archi rampanti, si sospendono alle volte, popolano le nicchie, trasformano le vetrate in gemme preziose, il bronzo in vibrazioni sonore e sbocciano sui portali con una gioiosa volata di libertà e di espressione. Niente di più laico dell'esoterismo di questo insegnamento! Niente di più umano di questa profusione d'immagini originali, viventi, libere, movimentate, pittoresche, talvolta disordinate ma sempre interessanti; niente di più commovente di queste innumerevoli testimonianze della vita quotidiana, del gusto dell'ideale, degli istinti dei nostri padri; e soprattutto, niente di più avvincente del simbolismo dei vecchi alchimisti, abilmente raffigurato dai modesti scultori di statue del medioevo. A questo proposito, Notre-Dame de Paris, chiesa filosofale, è, senza possibilità di smentita, uno dei i più perfetti prototipi del genere, come ha scritto Victor Hugo, «il più soddisfacente compendio di scienza ermetica, mentre la chiesa di Saint-Jacques-la-Boucherie ne era un geroglifico completo».
Gli alchimisti del XIV secolo si incontravano una volta alla settimana, nel giorno di Saturno, sia nel grande portico, sia al portale di San Marcello, oppure anche presso la piccola Porta Rossa, tutta decorata di salamandre. Denys Zachaire c'informa che questa usanza era ancora in vigore nel 1539, «di domenica e nei giorni festivi», mentre Noel du Fail dice che «il luogo di convegno di questi accademici era a Notre-Dame de Paris1 ». (1 Nöel du Fail, Propos mstiques, baliverneries, contes et discours d'Eutrapel (cap. X). Paris, Gosselin, 1842.)
E qui, nello splendore delle ogive dipinte e decorate2 (2 lle cattedrali tutto era colorato o dipinto di vivaci colori. Fa fede di questo il testo di Martirius, vescovo e viaggiatore armeno del XV secolo. Questo autore dice che il portico di Notre-Dame de Paris risplendeva come l'ingresso del paradiso. Vi si poteva ammirare il porpora, il rosa, l'azzurro, l'argento e l’oro. Sulla sommità del timpano del gran portale si possono ancora scorgere delle tracce di dorature. Il timpano della chiesa Saint-Germain-l'Auxerrois ha conservato la sua volta azzurra costellata d'oro.), dei costoloni delle volte, dei timpani dalle figure multicolori, ognuno illustrava il risultato dei suoi lavori, spiegava l'indirizzo delle sue ricerche. Si esprimevano delle probabilità; si discutevano le possibilità, si studiavano sul posto le allegorie del bel libro e la parte più animata di queste riunioni era certo l'astrusa esegesi dei simboli misteriosi.
Dopo Gobineau de Montluisant, Cambrici e «tutti quanti»1 (1 In italiano nel testo N.d.T.) gli altri, anche noi intraprendiamo il pio pellegrinaggio, per parlare alle pietre ed interrogarle. Ahimè! è ormai tardi. Il vandalismo di Sofflot ha distrutto gran parte di tutto quello che nel XVI secolo il soffiatore poteva ammirare. E, se l'arte deve essere riconoscente agli eminenti architetti Toussaint, Geoffroy Dechaume, BoeswillwaId, Viollet-le-Duc e Lassus, che restaurarono la basilica, odiosamente profanata dalla Scuola, la Scienza invece non ritroverà mai ciò che ha perduto.
Ma, comunque sia, malgrado queste incresciose mulilazioni, i motivi che ancora esistono sono ancora abbastanza numerosi tanto da non dover rimpiangere il tempo speso per una visita del luogo. Ci riteniamo, quindi, soddisfatti e largamente ricompensati del nostro sforzo se abbiamo potuto risvegliare la curiosità del lettore, soffermare l'attenzione dell'osservatore sagace e mostrare agli amanti dell'occulto che non è impossibile ritrovare il significato dell'arcano nascosto sotto il guscio pietrificato di questo prodigioso libro di magia.

III

Prima dobbiamo dire due parole sul termine (gotico, impiegato perl'arte francese che impose il suo stile a tutta la produzione del medioevo e la cui espansione si estende dal XII al XV secolo.
Alcuni pretendono, a torto, che questa parola derivi dai Goti, antico popolo della Germania; altri hanno creduto che questa forma d'arte venisse chiamata così, per la sua originalità e la nuovissima singolarità che fecero scandalo nel XVII e XVIII secolo e che quindi, per derisione, le fosse stato imposto un termine equivalente a barbara: questa è l'opinione della Scuola classica, imbevuta dei decadenti prìncipi del Rinascimento.
La verità, che è sulla bocca del popolo, è riuscita a mantenere e conservare l’espressione Arte gotica, nonostante gli sforzi dell'Accademia per sostituirle quella di Arte ogivale. Esiste in questo una ragioneoscura che avrebbe dovuto far riflettere i nostri linguisti sempre allaricerca dell'etimologia. Qual è, quindi, la ragione per cui pochissimi lessicologi si siano trovati nel giusto? - Perché la spiegazione dev'essere cercata nell'origine cabalistica della parola anziché nella sua radice letterale.
Alcuni autori perspicaci, e non superficiali, colpiti dalla similitudine che esiste tra gotico e gaelico hanno pensato che ci dovesse essere uno stretto rapporto tra Arte gotica e Arte gaelica o magica.
 Per noi art gotique1 (1 Si è preferito lasciare qui e altrove, l'espressione arte gotica in lingua francese perché il lettore possa rendersi conto del gioco di fonetica che rende simili i termini «art gotique» e «argotique». In italiano infatti tale gioco sarebbe intraducibile. Sul significato del termine argot, Fulcanelli è molto esauriente qualche rigo più sotto N.d.T.) non è altro che una deformazione ortografica della parola argotique, la cui omofonia è perfetta, conformemente alla legge fonetica che regola la cabala fonetica in tutte le lingue e senza tener conto alcuno dell'ortografia. La cattedrale, quindi, è un capolavoro d'art goth o d'argot 2 (2 Anche qui la pronuncia delle due parole e la stessa N.d.T.).
Dunque i dizionari definiscono la parola argot come «il linguaggio particolare di tutti quegli individui che sono interessati a scambiarsi le proprie opinioni senza essere capiti dagli altri che stanno intorno». È, quindi, una vera e propria cabala parlata. Gli argotieri, quelli che si servono d'un tale linguaggio, sono i discendenti ermetici degli argonauti, i quali andavano sulla nave Argo, parlavano la lingua argotica, - la nostra lingua verde - navigando verso le fortunate rive della Colchide per conquistare il famoso Vello d'Oro. Ancor oggi si dice d'un uomo molto intelligente, ma anche assai scaltro: sa tutto, capisce l'argot. Tutti gl'Iniziati si esprimevano in argot, anche i vagabondi della Corte dei Miracoli, - col poeta Villon alla loro testa, - ed anche i Frimasons3 (3 Dall'inglese Free-mason (libero muratore), da cui derivano i corrispondenti termini in italiano ed in francese: frammassone e fran-maçon N.d.T.), o frammassoni del medioevo, «che costruivano la casa di Dio», ed edificavano i capolavori argotiques ancor oggi ammirati. "nche loro, i nautes costruttori, conoscevano la strada che portava al Giardino delle Esperidi...
Anche ai nostri giorni gli umili, i miserabili, i disprezzati, i ribelli avidi di libertà e d'indipendenza, i proscritti, i vagabondi ed i nomadi parlano in argot, dialetto maledetto, bandito dalla buona società, da quei nobili che non lo sono affatto, dai borghesi pasciuti e benpensanti, avvoltolati nell'ermellino della loro ignoranza e della loro fatuità. L'argon resta il linguaggio d'una minoranza d'individui che vivono al di fuori delle leggi codificate, delle convenzioni, degli usi, del protocollo, ad essi si applica l'epiteto di voyous, cioè di voyants1 (1 In italiano: teppisti e veggenti. Come si nota la radice dei termini francesi deriva dal verbo voir: vedere. In italiano questo doppio senso è intraducibile N.d.T.), e, quello ancor più espressivo, di Figli o Bambini del sole. Infatti, l'arte gotica è l’art got o cot, l’arte della Luce e dello Spirito.
Si potrebbe credere che questi siano soltanto dei giochi di parole. Noi ne conveniamo di buon grado. L'essenziale è che guidino la nostra fede verso una certezza, verso la verità positiva e scientifica, chiave del mistero religioso e non la mantengano, invece, errante nel labirinto capriccioso dell'immaginazione. Quaggiù non esistono né il caso né la coincidenza, né i rapporti fortuiti; tutto è previsto, ordinato e regolato, e non spetta a noi modificare a nostro piacimento la volontà imperscrutabile del Destino. Se il senso comune delle parole non ci permette nessuna scoperta capace di elevarci, d'istruirci, d'avvicinarci al Creatore, allora il vocabolario diventa inutile. Il verbo, che assicura all'uomo l'incontestabile superiorità e il potere sovrano, esercitato su tutti gli esseri viventi, perde, in questo caso, la sua nobiltà, la sua grandezza, la sua bellezza e diventa soltanto un'affliggente vanità. Ma la lingua, strumento dello spirito, vive di per sé, anche se è solo il riflesso dell'Idea universale. Noi non inventiamo nulla, non creiamo nulla. Tutto è in tutto. Il nostro microcosmo non è altro che una particella, infima, animata, pensante, più o meno imperfetta del macrocosmo. Ciò che noi crediamo di scoprire con lo sforzo della nostra intelligenza esiste già da qualche altra parte. La fede ci da il presentimento di ciò che esiste; e la rivelazione ce ne da la prova definitiva. Spesso noi passiamo accanto al fenomeno o al miracolo, quasi lo tocchiamo, ma non lo vediamo neppure, come se fossimo ciechi e sordi. Quante meraviglie, quante cose insospettate potremmo scoprire se sapessimo sezionare le parole, romperne il guscio e liberare il loro spirito, la luce divina da esse racchiusa! Gesù si esprimeva solo con parabole; pos siamo noi negare la verità ch'esse ci insegnano? E, nella conversazione corrente, non sono forse i doppi sensi, le approssimazioni, i bisticci di parole o le assonanze che caratterizzano le persone di spirito, felici di poter sfuggire alla tirannia della lettera, e che si mostrano, quindi, a loro modo cabaliste senza saperlo?
Aggiungiamo, infine, che l’argot è una delle forme derivanti dalla Lingua degli Uccelli, madre e signora di tutte le altre, lingua dei filosofi e dei diplomatici. È quella lingua, appunto, della quale Gesù svela la conoscenza ai suoi apostoli, inviando loro il suo spirito, lo Spirito Santo. Essa insegna il mistero delle cose e svela le più nascoste verità. Gli antichi Incas la chiamavano Lingua di corte, perché era conosciuta dai diplomatici, ai quali forniva così la chiave d'una duplice scienza : la scienza sacra e la scienza profana. Nel medioevo era chiamata Gaia scienza o Gaio sapere, Lingua degli dei, Diva-Bottiglia1 (1 La vita di Gargantua e Pantagruel, di Francois Rabelais, è un'opera esoterica, un romanzo d'argot. In esso il buon curato di Meudon si rivela un grande iniziato e un cabalista di prim'ordine.). La Tradizione ci tramanda che gli uomini la parlavano prima della costruzione della torre di Babele2 (2 La perifrasi, il costrutto ba usato per bel. Anche qui c'è un gioco di cabala, intraducibile in italiano: la tour de Babel (la torre di Babele) diventa la tour de Ba bel N.d.T.), che fu causa della sua perversione, e per la maggioranza dei partecipanti fu anche causa del totale oblio del sacro idioma. Oggi, a parte l'argot, ritroviamo un po' di quell'antico carattere in alcune lingue locali come il piccardo, il provenzale, ecc., e nel dialetto degli zigani.
La mitologia vuole che il celebre indovino Tiresia3 (3 Si dice che Tiresia avesse perso la vista per aver svelato ai mortali i segreti dell'Olimpo. Eppure visse «sette, otto o nove volte il periodo di vita d'un uomo» e, alternativamente, sarebbe stato uomo e donna!) abbia conosciuto perfettamente la Lingua degli Uccelli che gli sarebbe stata insegnata da Minerva, dea della Saggezza. Insieme a lui, sarebbero stati a conoscenza di questa lingua anche Talete di Mileto, Melampo e Apollonio di Tiana4 (4 Filosofo la cui vita, ricca di leggende, miracoli e fatti prodigiosi, appare assai ipotetica. Il nome di questo personaggio quasi favoloso, ci sembra essere nient'altro che un'immagine mito-ermetica del compost, o rebis filosofale, realizzato mediante l'unione del fratello con la sorella, di Gabrizio con Beia, d'Apollo con Diana. Perciò, se le meraviglie raccontate da Filostrato, sono effettivamente riferite alla chimica, non ce ne stupiremo.) personaggi fittizi i cui nomi parlano eloquentemente della scienza che ci interessa, e così chiaramente che non abbiamo bisogno di analizzarli in queste pagine.

IV

Tranne qualche rara eccezione, la pianta delle chiese gotiche, cattedrali, abbaziali o conventuali, assume la forma di una croce latina stesa al suolo. Ma la croce è il geroglifico alchemico del crogiuolo, un tempo chiamato cruzol, crucibile e croiset1 (1 Termini intraducibili N.d.T.) (nel tardo latino, crucibulum, crogiuolo, ha per radice crux, crucis, croce, secondo Du Cange).
Ed è infatti proprio nel crogiuolo che la materia prima, come lo stesso Cristo, patisce la Passione; essa muore nel crogiuolo per risuscitare poi, purificata, spiritualizzata, già trasformata. Del resto il popolo, fedele guardiano delle tradizioni orali, non esprime forse il sacrificio terreno degli uomini con delle parabole religiose e delle similitudini ermetiche? - Portare la croce, salire il calvario, passare nel crogiuolo dell'esistenza, sono altrettante locuzioni correnti nelle quali ritroviamo lo stesso senso nascosto sotto lo stesso simbolismo.
Non dimentichiamo che intorno alla croce luminosa vista in sogno da Costantino apparvero queste parole profetiche, che egli fece dipingere sul suo labaro: In hoc signo vinces; con questo segno vincerai. Alchimisti, fratelli miei, ricordatevi anche che la croce reca l'impronta di tre chiodi che servirono ad immolare il Cristo-materia, immagine delle tre purificazioni che devono esser fatte col ferro e col fuoco. Parimenti meditate questo chiaro brano di sant'Agostino della sua Disputa con Trifone (Dialogus cum Triphone, 40) : «Il mistero dell'agnello che Dio aveva ordinato di sacrificare a Pasqua, egli dice, rappresentava la figura del Cristo, quelli che credono in lui tingono col suo sangue le loro case, cioè se stessi mediante la fede che hanno in lui. Ora, quest'agnello, che la legge prescriveva di fare arrosto tutto intero, era il simbolo della croce che il Cristo doveva patire. Perché l'agnello, per essere arrostito, è disposto in modo da raffigurare una croce: uno degli spiedi di legno lo traversa da una parte all'altra, dall'estremità inferiore fino alla testa, l'altro spiedo attraversa le spalle e ad esso si legano i piedi anteriori dell'agnello (in greco: le mani).»
La croce è un simbolo molto antico, usato in ogni tempo; in qualsiasi religione, presso tutti i popoli, e sarebbe uno sbaglio considerarla come simbolo speciale del cristianesimo, come dimostra assai abbondantemente l'abate Ansault1 (1 Vedi: abate Ansault, La Croix avant Jésus-Christ, Paris V. Rétaux, 1894.). Diremo anche che la pianta dei grandi edifici religiosi del medioevo, con l'adozione di un'abside semicircolare o ellittica saldata al coro, segue perfettamente la forma del segno ieratico egiziano della croce ansata, che si legge ank, ed indica la Via universale nascosta nelle cose. Se ne può vedere un esempio nel museo di Saint-Germain-en-Laye, su di un sarcofago cristiano proveniente dalle cripte arlesiane di Saint-Honorat. D'altra parte, l'equivalente ermetico del segno ank è l'emblema di Venere o Cipride (in greco ……, l'impura), il rame volgare che alcuni altri, per nascondere ancora di più il senso, hanno tradotto con bronzo ed ottone. «Imbianca l'ottone e brucia i tuoi libri» ci ripetono tutti gli autori migliori. (parola greca) è lo stesso di (parola greca), zolfo, che significa ingrasso, sterco, letame, immondizia. Il Cosmopolita scrive: «II saggio troverà la nostra pietra perfino nel letame mentre l'ignorante non potrà neanche credere ch'essa esista nell'oro.»
Così la pianta dell'edificio cristiano, col segno della Croce, ci rivela la qualità della materia prima, e la sua preparazione; per gli alchimisti quest'indicazione termina con l'ottenimento della Prima pietra, pietra angolare della Grande Opera filosofale. Su questa pietra Gesù ha costruito la sua Chiesa; e i liberi muratori medioevali hanno seguito simbolicamente l'esempio divino. Ma prima che fosse tagliata, per servire di base per l'opera d'arte gotica così come per l'opera d'arte filosofale, questa pietra ancora grezza, impura, materiale e grossolana era lavorata per raffigurare l'immagine del diavolo.
Notre-Dame de Paris possedeva un geroglifico simile, che si trovava sotto la tribuna, all'angolo della clausura del coro. Era una statua del diavolo, che spalancava un'enorme bocca nella quale i fedeli venivano a spegnere i loro ceri; di modo che il blocco scolpito appariva sporco di gocce di cera e di nerofumo. Il popolo chiamava questa statua Mastro Pietro del Cantone, nome che è stato sempre incomprensibile agli archeologi. Questa figura, destinata a rappresentare la materia iniziale dell'Opera, umanizzata sotto le spoglie di Lucifero (che porta la luce, - la stella del mattino), era il simbolo della nostra pietra angolare, la pietra del cantone, la pietra maestra del cantone. «La pietra che i costruttori hanno scartato, scrive Amyraut2 (2 M. Amyraut, Paraphrase de la Première Epìtre de saint Pierre (capitolo II, v. 7). Saumur, Jean Lesnier. 1646, p. 27.), è diventata la pietra maestra d'angolo, sulla quale si basa tutta la struttura dell'edificio; ma essa è anche un ostacolo e pietra dello scandalo, contro la quale essi si scagliano andando incontro alla propria rovina.» Per quel che riguarda il taglio di questa pietra angolare - intendiamo qui la sua preparazione - lo si può veder interpretato in un bellissimo bassorilievo dell'epoca, scolpito all'esterno dell'edificio, su di una cappella absidale, dalla parte di via del Cloitre-Notre-Dame.

V

Mentre al tailleur d'imaiges 1 (1 Cesellatore, scultore d'immagini sacre N.d.T.) era riservata la decorazione delle parti elevate, al ceramista era attribuito il compito di ornare il pavimento delle cattedrali. Esso, generalmente, era lastricato o pavimentato mediante delle mattonelle di terracotta dipinte e ricoperte con uno smalto al piombo. Quest'arte aveva raggiunto nel medioevo una perfezione sufficiente ad assicurare ai soggetti istoriati una bastevole varietà di disegni e di colori. Si usavano anche dei piccoli cubi multicolori di marmo alla maniera dei mosaisti bizantini. Tra i motivi usati più di frequente, è bene parlare dei labirinti, tracciati sul suolo nel punto d'intersezione della navata col transetto. Le chiese di Sens, di Reims, di Auxerre, di Saint-Quentin, di Poitiers, di Bayeux hanno conservato i loro labirinti. Nel labirinto di Amiens si notava, al centro, una grande lastra, nella quale era incastonata una sbarra d'oro e un semicerchio dello stesso metallo, che raffigurava l'alzarsi del sole sulla linea dell'orizzonte. Più tardi il sole d'oro fu sostituito da un sole di rame, poi spari anche quest'ultimo e non fu mai più rimesso a posto. Quanto al labirinto di Chartres, chiamato volgarmente la lega (sta per il luogo)2 (2 Anche questo è un esempio di cabala fonetica, Lieue (lega) e lieu (luogo) si pronunciano, in francese, allo stesso modo N.d.T.) e disegnato sul pavimento della navata, si compone di tutta una serie di cerchi concentrici che si ripiegano gli uni sugli altri con un'infinita varietà di combinazioni. Un tempo al centro di questa figura, si notava il duello tra Teseo ed il Minotauro. Questa è un'altra prova dell'infiltrazione dei soggetti pagani nella iconografia cristiana e di conseguenza è anche prova d'un senso mito-ermetico evidente. Però il problema non è di stabilire un qualsiasi rapporto tra queste immagini e le famose costruzioni dell'antichità: i labirinti di Grecia e d'Egitto.
Il labirinto delle cattedrali, o labirinto di Salomone, e, ci dice Marcellin Berthelot1 (1 Vedi: La Grande Encyclopedie. Voce: Labyrinthe. T. XXI, pag 703.), «una figura cabalistica che si trova anche sul frontespizio di alcuni manoscritti alchimici e che fa parte delle tradizioni magiche attribuite a Salomone. È una serie di cerchi concentrici, interrotti in certi punti, in modo da formare un percorso bizzarro ed inestricabile».
L'immagine del labirinto ci si offre dunque come emblema dell'intero lavoro dell'Opera, con le sue due maggiori difficoltà: quella della strada da seguire per raggiungere il centro, - nel quale si scatena il duro duello delle due nature, - e l'altra quella della strada che l'artista deve seguire per uscirne. A questo punto ha bisogno del filo d'Arianna se non vuole vagare tra i meandri dell'opera senza riuscire a scoprire l'uscita.
Non è nostra intenzione scrivere, come fece Batsdorff, uno speciale trattato per insegnare che cos'è il filo d'Arianna, che permise a Teseo di compiere la sua impresa. Ma appoggiandoci alla cabala speriamo di fornire agli investigatori sagaci alcune precisazioni sul valore simbolico del famoso mito.
 Arianna è una forma di airagne (ragno), per metatesi della i. In spagnolo, la ñ si pronuncia gn; (parola greca) (araignée, airagne2 (2 Anche nella parola italiana ragno è evidente la derivazione dal greco. Qui abbiamo mantenuto tali e quali i termini di passaggio dal greco ai vari dialetti francesi, altrimenti intraducibili N.d.T.)) si può dunque leggere arahné, arahni, arahgne. La nostra anima non è forse il ragno che tesse il nostro corpo? Ma questa parola richiede ancora altre derivazioni. Il verbo ….. significa prendere, cogliere, trascinare, attirare; da esso deriva ….., ciò che prende, attira, coglie. Quindi ….. è la calamità, la virtù rinchiusa in quel corpo chiamato dai saggi: nostra magnesia. Proseguiamo. Nel dialetto pro venzale, il ferro è chiamato aran e iran secondo le varie inflessioni. È l’Hiram massonico, il divino Ariete, l'architetto del Tempio di Salomone. I felibri chiamano il ragno aragno e iragno e anche airagno; i piccardi aregni. Accostate tutte queste parole al greco ……, ferro e calamita. Questa parola ha ambidue i significati. E non è tutto. Il verbo ….. significa l'alzarsi di un astro che esce dal mare: da esso deriva ….. (aryan), l'astro che esce dal mare, che sorge; …… o ariane è quindi l'Oriente, per la permutazione delle vocali. Inoltre, …. ha anche il significato di attirare; quindi ….. è anche: calamita. Se ora esaminiamo …….., da cui deriva il latino sidus sideris, stella, riconosceremo il nostro aran, iran, airan provenzale, il greco ….., il sole sorgente.
Arianna, ragno mistico, fuggita da Amiens, ha lasciato sul pavimento del coro soltanto la traccia della sua tela...
Ricordiamo rapidamente che il più celebre dei labirinti antichi, quello di Cnosso a Creta, che fu scoperto nel 1902 dal dottor Evans, di Oxford, era chiamato Absolum. A questo punto, faremo notare che questa parola è assai vicina a quella di Absolu1 (1 Assoluto N.d.T.), nome con il quale gli antichi alchimisti indicavano la pietra filosofale.

VI

Tutte le chiese hanno l'abside rivolto verso sud-est e la loro facciata verso nord-ovest, mentre i transetti, che formano il braccio trasversale della croce, sono orientali nella dirczione nord-est, sud-ovest. Questa orientazione è invariabile, deliberatamente voluta, in modo che i fedeli ed i profani entrando in chiesa da Occidente, avanzassero dritti verso il santuario con la faccia rivolta verso il luogo da cui sorge il sole, verso Oriente, la Palestina, culla del cristianesimo. Essi lasciano le tenebre e vanno verso la luce.
In seguito a questa disposizione, uno dei tre rosoni che ornano il transetto e il grande portico non è mai illuminato dal sole; è il rosone settentrionale che s'irradia nella faccia del transetto sinistro. Il secondo fiammeggia al sole di mezzogiorno; è il rosone aperto alla estremità del transetto destro. L'ultimo s'illumina ai raggi colorati del sole che tramonta; è il grande rosone del portale, di gran lunga più grande, per estensione e per bellezza, dei suoi fratelli laterali. In questo modo, sul frontone delle cattedrali gotiche, si succedono i colori dell'Opera, secondo un processo circolare che va dalle tenebre, - rappresentate dall'assenza e dal color nero, - alla perfezione del colore rosso, passando per il color bianco, considerato come «una media tra il nero e il rosso».
 Nel medioevo, il rosone centrale dei portici si chiamava Rota,la ruota. Ora, la ruota è il geroglifico alchemico del tempo necessario alla cottura della materia filosofale e, in seguito, rappresentò la cottura stessa. Il fuoco sostenuto, costante ed eguale che l'artista mantiene giorno e notte durante questa operazione, è chiamato, perciò, fuoco di ruota. Però, oltre al colore necessario alla liquefazione della pietra filosofale, c'è bisogno in più di un secondo agente, chiamato fuoco segreto o filosofico. È proprio quest'ultimo fuoco, risvegliato dal calore volgare, che fa girare la ruota e provoca i diversi fenomeni che l'artista osserva nel proprio vaso 1 (1 De Nuysement, Poème philosophic de la Verité de la Phisique Mineralle, in Traittez de l'Harmonie et Constilution generalle du Vray Sel. Parigi, Périer e Buisard, 1620 e 1621, p. 254.):
D'aller par ce chemin, non ailleurs, je t'avoue;
Remarque seulement les traces de ma roue.
Et pour donner partout une chaleur égalle,
Trop tost vers terre et del ne monte ny dévalle.
Car en montant trop haut le ciel tu brusleras,
Et devallant trop bas la terre destruiras.
Mais si par le milieu ta carrière demeure,
La course est plus unie et la voye plus seure 2.
(2 Ti confesso che io procedo per questa strada e non per un'altra; Nota soltanto le orme della mia ruota. / E per distribuire dappertutto un uguale calore, / Fai attenzione a non montare ne a discendere troppo, verso il cielo o verso la terra. / Perché montando troppo brucerai il cielo, / E andando troppo in basso brucerai la terra. / Ma se procederai nel giusto mezzo, / L'andamento è più regolare e la strada è più sicura (N.d.T.).
La rosa rappresenta, quindi, da sola la durata del fuoco e la sua azione. Per questa ragione i decoratori medioevali hanno cercato di tradurre, nei loro rosoni, i movimenti della materia eccitata dal fuoco elementare, come si può notare sul portale nord della cattedrale di Chartres, nei rosoni di Toul (Saint-Gengoult), di Saint-Antoine de Compiègne, ecc.. Nell'architettura dei secoli XIV e XV, la preponderanza del simbolo igneo, che caratterizza nettamente l'ultimo periodo dell'arte medioevale, ha fatto chiamare lo stile di quest'epoca: Gotico fiammeggiante.
Alcuni rosoni, emblemi dell'amalgama, hanno un senso particolare che sottolinea ancora di più le proprietà di questa sostanza che il Creatore ha firmato di sua mano. Questo magico sigillo rivela all'artista che la strada seguita è quella giusta e che la mistura filosofale è stata preparata canonicamente. Si tratta d'una figura radiale a sei punte (digamma), chiamata Stella dei Magi, che brilla alla superficie del compost1 (1 Fango dall'odore pestilenziale proveniente dalle impurità e da quella parte di zolfo dei filosofi che non s'è potuto amalgamare. Il compost si presenta sotto vari aspetti di diversi colori: marrone scuro, alla prima cottura; va poi verso il nero, il grigio ed anche il verde N.d.T.), cioè al di sopra della mangiatoia in cui riposa Gesù, il Bimbo-Re.
Tra gli edifici che ci mostrano i rosoni stellati a sei petali, - riproduzione del tradizionale Sigillo di Salomone2 (2 Il giglio delle convalli poligonale, chiamato comunemente Sigillo di Salomone, deve il suo nome allo stelo, la cui sezione è stellata, come il segno magico attribuito al re degli Israeliti, figlio di David.), - citiamo la cattedrale di Saint-Jean e la chiesa Saint-Bonaventure de Lyon (rosoni dei portali); la chiesa di Saint-Gengoult a Toul; i due rosoni di Saint-Vulfran d'Abbeville; il portale della Calenda nella cattedrale di Rouen; lo splendido rosone blu della Sainte-Chapelle, ecc...
Poiché questo segno è del massimo interesse per un alchimista, - non si tratta forse dell'astro che lo guida e gli annuncia la nascita del Salvatore? - sarà per noi un piacere riunire qui alcuni brani da testi che riferiscono, descrivono e spiegano la sua apparizione. Lasceremo al lettore la cura di stabilire tutti gli accostamenti più utili, di coordinare le varie versioni, di isolare la verità positiva che, in questi frammenti enigmatici, è mescolata all'allegoria della leggenda.

VII

Varrone, nel suo Antiquitates rerum humanarum, ricorda la leggenda d'Enea, che salva il padre ed i penati dalle fiamme di Troia e che giunge, dopo lunghe peregrinazioni, nei campi di Laurento1 (1 Secondo le regole della cabala si tratta di l'or enté (l'oro innestato).), termine del suo viaggio. Egli spiega così l'avvenimento:
Ex quo de Troja est egressus Aeneas, Veneris eum per diem quotidie stellam vidisse, donec ad agrum Laurentum veniret, in quo eam non vidit ulterius; qua recognovit terras esse fatales2 (2 Varro, in Servius, Aeneid, t. III, p. 386.). (Dopo la sua partenza da Troia, Enea vide tutti i giorni e durante il giorno la stella di Venere, fin quando non arrivò nei campi di Laurento, dove cessò di vederla, cosa che gli fece capire che quelle erano le terre designate dal Destino).
Ecco adesso una leggenda, estratta da un'opera che ha per titolo : Libro di Seth, riportata nei seguenti termini da un autore del VI secolo3 (3 Opus imperfectum in Mattheum. Hom. II unito alle Oeuvres de saint Jean Chrysostome, Patr. grecque. t. LVI, p. 637.):
«Ho udito alcune persone parlare d'una Scrittura che, anche se poco certa, non è contraria alla fede ed è anche una bella storia che merita d'essere udita. In essa si legge che esisteva un popolo, nell'Estremo Oriente, sulla riva dell'Oceano, che possedeva un Libro attribuito a Seth, nel quale si parlava della futura apparizione di questa stella e dei doni che si dovevano portare al Bambino; si considerava questa predizione come trasmessa da generazioni di Saggi, di padre in figlio,
«Essi scelsero dodici Saggi, tra i più sapienti del loro popolo e tra i maggiormente dediti all'osservazione dei misteri dei cieli, e si prepararono all'attesa di questa stella. Se qualcuno di questi Saggi moriva, un suo figlio od un parente prossimo, anch'esso in attesa dello stesso avvenimento, era scelto per sostituirlo.
«Nella loro lingua costoro erano chiamati Magi, perché glorificavano Dio in silenzio e a bassa voce.
«Ogni anno questi uomini, dopo la mietitura, salivano su di un monte che, nella loro lingua, si chiamava Monte della Vittoria; ed era un monte assai bello per i ruscelli e gli alberi che gli facevano corona; su questo monte si trovava una caverna ricavata nella roccia. Arrivati in cima, si lavavano, poi pregavano e lodavano Dio in silenzio per tre giorni; questa pratica era seguita ad ogni generazione, sempre nell'attesa che questa stella di felicità apparisse durante la loro generazione. E, finalmente, essa apparve, sul Monte della Vittoria, sotto le spoglie d'un piccolo bambino che mostrava la figura d'una croce; essa parlò loro, diede loro le istruzioni necessario ed ordinò di partire per la Giudea.
«Così la stella li precedette per due anni, e mai, durante il viaggio, venne a mancare il pane o l'acqua.
«Ciò che essi fecero in seguito è riportato più brevemente nel Vangelo.»
Secondo questa leggenda, d'epoca differente, la forma della stella sarebbe stata diversa1 (1 Apocryphes, t. II, p. 469.):
«Durante il viaggio, durato tredici giorni, i Magi non mangiarono né dormirono; né essi ne provarono il bisogno, e questo periodo sembrò loro che avesse la durata d'un giorno. Più s'avvicinavano a Betlemme, più la stella brillava con splendore; essa aveva la forma di un'aquila, che volasse per aria agitando le ali; al di sopra di essa c'era una croce.»
La leggenda seguente, che ha come titolo Fatti accaduti in Persia, al tempo della nascita di Cristo, è attribuita a Giulio l'Africano, cronista del III secolo, benché non si sappia a quale epoca essa appartenga realmente2 (2 Julius Africanus, in Patr. grecque. t. X, pp. 97 e 107.):
«L'episodio accadde in Persia, in un tempio di Giunone (parola greca), costruito da Ciro. Un sacerdote annuncia che Giunone ha concepito. — A questa notizia tutte le statue degli dei danzano e cantano. — Una stella scende dal cielo e annuncia la nascita d'un Bambino Principio e Fine. — Tutte le statue cadono bocconi. — I Magi annunciano che questo Bambino è nato a Betlemme e consigliano al re di mandare ambasciatori. — Allora appare Bacco ( parola greca), che predice che questo Bambino scaccerà tutti i falsi dèi. — Partenza dei Magi, guidati dalla stella. Giunti a Gerusalemme, essi annunciano ai sacerdoti la nascita del Messia. — A Betlemme, essi salutano Maria, e fanno dipingere da un abile schiavo, il suo ritratto col Bambino; questo ritratto viene poi messo nel loro tempio principale con questa iscrizione: A Giove mitra (parole greche, — al dio sole), al grande Dio, al re Gesù, l'impero dei Persiani fa questa dedica.»
«La luce di questa stella, scrive sant’Ignazio3 (3 Lettera agli abitanti di Efeso, c. XIX) di tutte le altre; il suo splendore era ineffabile, e la sua novità faceva si che tutti quelli che la guardavano erano colmi di stupore. Il sole, la luna e gli altri astri formavano il cuore di questa stella
Huginus a Barma, nella Pratica della sua opera1 (1 Huginus a Barma, Le Règne de Saturne changé en siècle d'or. Parigi, Derieu, 1780.), usa gli stessi termini per parlare della materia della Grande Opera sulla quale appare la stella: «Prendete della vera terra, egli dice, ben impregnata di raggi di sole, di luna e degli altri astri
Nel IV secolo, il filosofo Calcidio che, a detta di Mullachio, ultimo dei suoi editori, proclamava che si dovevano adorare gli dei della Grecia, gli dei di Roma e gli dei stranieri, ha mantenuto il racconto della stella dei Magi e la spiegazione che di essa fornivano i sapienti. Dopo aver parlato di una stella chiamata Ahc dagli Egiziani e che sarebbe stata foriera di disgrazie, aggiunge:
«C'è anche un'altra storia più sacra e venerabile, che attesta come, con il sorgere di una certa stella furono annunciate, non morti e malattie, ma la venuta d'un Dio venerabile, perché parlasse agli uomini e perché fosse d'aiuto alle miserie terrene. I più saggi tra i Caldei, avendo visto questa stella, da uomini bene esercitati alla contemplazione dei fenomeni celesti, viaggiarono di notte e cercarono, secondo quanto si dice, la nascita recente d'un Dio, ed avendo riconosciuto la maestà di questo Bambino, gli resero gli omaggi che si convenivano ad un Dio così grande. Cosa che a voi è nota più che ad ogni altro2 (2 Calcidio, Comm. in Timoeum Platonis, e. 125; sta nei Frag. philosophorum graecorum di Didot, t. II, p. 210. - Evidentemente Calcidio si rivolge ad un iniziato.).»
 Diodoro di Tarso3 (3 Diodoro di Tarso, Du destin, sta in Photius, cod. 233; Patr. grecque, t. CHI, p. 878.) si mostra ancor più positivo quando afferma che «questa stella non era una di quelle che popolano il cielo, ma una certa virtù o forza (parola greca) urano-diurna (parola greca), che ha preso la forma d'un nastro per annunciare la nascita del Signore di tutti».
Vangelo secondo san Luca, II, v. da 1 a 7 :
 « Ora, nella medesima contrada, si trovavano dei pastori che passavano la notte nei campi, vegliando a turno per far la guardia alle loro greggi. Ecco che si presentò loro un Angelo del Signore, ed una luce divina li avvolse, essi furono presi da grande spavento: ma l'Angelo disse loro:
«Non temete, perché io vi porto la Buona Novella fonte di grande gioia per tutto il popolo; oggi è nato per voi nella città di David un Salvatore che è il Cristo-Signore; e questo per voi sarà il segno: troverete un Bambino avvolto in panni e posto in una mangiatoia.
«Nello stesso istante la moltitudine della milizia celeste si unì all'Angelo, lodando Dio e dicendo: Gloria a Dio. nel più alto dei cieli e pace in terra agli uomini di buona volontà.»
Vangelo secondo san Matteo. II v. da 1 a 1 1 :
«Quando Gesù nacque a Betlemme, città di Giuda, al tempo del re Erode, giunsero dall'Oriente a Gerusalemme dei Magi, dicendo: Dove è Colui che è nato, re dei Giudei, perché noi abbiamo visto la sua stella in Oriente e siamo venuti ad adorarlo?
«... Allora Erode, chiamati segretamente i Magi, s'informò accuratamente sul periodo nel quale era loro apparsa la stella, e mandandoli a Betlemme, disse :
«Andate, informatevi esattamente sul Bambino e, quando lo avrete trovato, fatemelo sapere, affinchè, anch'io, vada ad adorarlo.
«Essi dunque, dopo aver udito il re, se ne andarono; ed ecco che la stella che avevano visto in Oriente apparve nuovamente e li precedeva fino a quando non andò a posarsi sopra il luogo nel quale era il Bambino.
«Ora, vedendo la stella, essi si rallegrarono assai e, entrando nella casa, trovarono il Bambino con Maria, sua madre, e prosternandosi l'adorarono; poi aperti i loro forzieri, gli offrirono dei regali: oro, incenso e mirra.»
A proposito di fatti così strani e davanti all'impossibilità d'attribuirne la causa a qualche fenomeno celeste, A. Bonnetty1 (1 A. Bonnetty, Documents historiques sur la Religion dea Romains, t. II, p. 564.), colpito dal mistero che avvolge questi racconti, si chiede :
«Chi sono questi Magi e cosa si deve pensare di questa stella? È ciò che in questo momento si domandano i critici razionalisti ed altri ancora. È difficile rispondere a questa domanda perché il Razionalismo e l'Ontologismo, antichi e moderni, poiché estraggono tutte le loro conoscenze da se stessi, hanno fatto dimenticare tutti i mezzi mediante i quali gli antichi popoli dell'Oriente conservavano le tradizioni primitive.»
La prima menzione della stella la troviamo sulla bocca di Balaam. Costui sarebbe nato nella città di Pethor, sull'Eufrate, e viveva, dicono, verso l'anno 1477 a.C., in regione centrale dell'impero assiro, allora ai suoi inizi. Profeta o Mago in Mesopotamia, Balaam esclamava:
«Come potrei io maledire colui che il suo Dio non maledice? Come potrei dunque minacciare colui che Jehohav non minaccia? Ascoltate!... Io lo vedo, ma non adesso; io lo contemplo ma non da vicino... Sorge da Gìacobbe una stella e da Israele nasce un segno... » (Num., XXIV, 47).
Nell'iconografìa simbolica la stella serve ad indicare sia il concepimento che la nascita. Spesso la Vergine è rappresentata cinta da un'aureola di stelle. Quella di Larmor (Morbihan), fa parte d'un trittico molto bello sulla morte del Cristo e la sofferenza di Maria, — Mater dolorosa, — nel cielo della composizione centrale si possono vedere il sole, la luna, le stelle e la sciarpa di Iride, la Vergine, poi, tiene nella mano destra una grande stella, — maris stella, — epiteto dato alla Vergine in un inno cattolico.
G. J. Witkowski1 (1 G.J. Witkowski, L'Art profane à l'Eglise. Francia, Parigi, Schemit, 1908, p. 382.) ci descrive una vetrata assai curiosa, che si trovava vicino alla sacrestia, nell'antica chiesa, oggi distrutta, di Saint-Jean a Rouen. Questa vetrata raffigurava il Concepimento di san Romano. «Suo padre. Benedetto, consigliere di Clotario II, e sua madre Felicita, erano distesi su di un letto, interamente nudi, secondo l'usanza che durò fino alla metà del XVI secolo. Il concepimento era rappresentato da una stella che brillava sulla coperta a contatto del ventre della donna... La cornice di questa vetrata, già strana per l'argomento principale trattato, era ornata di medaglioni nei quali si distinguevano, non senza sorpresa, le figure di Marte, Giove, Venere, ecc..., e perché non si avessero dubbi sulla loro iden tità, la figura di ogni divinità era accompagnata dal proprio nome.»

VIII

Come l'anima umana ha i suoi segreti recessi, così la cattedrale ha i suoi corridoi nascosti. Il loro insieme, (dal greco ……, nascosto) costituisce la cripta che si estende sotto il livello della chiesa).
In questo luogo basso e umido e freddo, il visitatore avverte una singolare sensazione che impone il silenzio: quella della potenza unita alle tenebre. Qui siamo nell'asilo dei morti, come nella basilica di Saint-Denis, necropoli degli illustri; come nelle Catacombe romane, cimitero dei cristiani. Lastre di pietre; mausolei di marmo. sepolcri; resti di storia, frammenti del passato. Un silenzio triste ed oppressivo riempie questi spazi coperti a volta. I mille rumori del di fuori, varie eco del mondo, non arrivano più fino a noi. Finiremo con l'arrivare alle caverne dei ciclopi? Siamo sulla soglia dell'inferno dantesco, o sotto le gallerie sotterranee, così accoglienti, così ospitali per i primi martiri? — Tutto è mistero, angoscia e paura in questo antro oscuro...
Attorno a noi, numerosi pilastri enormi, massicci, talvolta abbinati, innalzati sui loro basamenti larghi e smussati. Capitelli corti, poco sporgenti, sobri, tozzi. Forme rozze e povere, nelle quali l'eleganza e la ricchezza cedono il passo alla solidità. Muscoli spessi, contratti per lo sforzo, che si dividono, senza venir meno, il formidabile peso dell'intero edifìcio. Volontà notturna, muta, rigida, tesa in una perpetua resistenza contro la pressione. Forza materiale che il costruttore ha saputo ordinare e dividere, dando a tutte queste parti l'aspetto arcaico d'una mandria di elefanti fossili, saldati gli uni con gli altri, arrotolando i loro dorsi ossuti, scavando i loro ventri pietrificati sotto la spinta d'un carico eccessivo. Forza reale ma occulta che si attua in segreto, si sviluppa nell'ombra, agisce senza tregua nella profondità delle sostruzioni dell'opera. Questa è l'impressione predominante che il visitatore avverte percorrendo le gallerie delle cripte gotiche.
Un tempo, le camere sotterranee dei templi servivano come dimora per le statue di Iside, ed esse diventarono, al tempo dell'introduzione del cristianesimo in Gallia, quelle Vergini nere che il popolo, ai giorni nostri, circonda d'una venerazione tutta particolare. Del resto il simbolismo tra queste due raffigurazioni è lo stesso: le une e le altre mostrano sul loro basamento la famosa iscrizione: Virgini pariturae; alla Vergine che deve partorire. Ch. Bigarne1 (1 Ch. Bigarne, Considérations sur le Culle d'Isis chez les Eduens. Beaune, 1862.), ci parla di parecchie statue di Iside designate dallo stesso vocabolo. L'erudito Pierre Dujois ci dice: «Già nella sua Bibliografia generale dell'Occulto, il sapiente Elias Schadius aveva segnalato, nel suo libro De dictis Germanicis, un'iscrizione analoga: Isidi, seu Virgini ex qua filius proditurus est2 (2 A Iside, o alla Vergine dalla quale nascerà il Figlio.). Queste icone, dunque, non avevano per nulla il significato cristiano, che comunemente viene loro dato, almeno dal punto di vista esoterico. Bigarne dice che Iside, prima della concezione è, secondo la teogonia astronomica, l'attributo di quella Vergine che parecchi monumenti, molto più antichi del cristianesimo, indicano col nome di Virgo paritura, cioè la terra prima d'essere fecondata, e che sarà ben presto rianimata dai raggi del sole. È anche la madre degli dei, come attesta una pietra di Dio: Matri Deum Magnae ideae». Il senso esoterico delle nostre Vergini nere non può esser meglio definito. Esse raffigurano, nella simbologia ermetica, la terra primitiva, quella che l'artista deve scegliere come soggetto della propria grande opera. È la materia prima allo stato di minerale, come e quando viene estratta dai filoni metalliferi, profondamente nascosta sotto la massa rocciosa. I testi ci dicono che è «una sostanza nera, pesante, friabile, fragile, che ha l'aspetto d'una pietra e può essere frantumata in piccoli pezzi proprio come una pietra». Sembra dunque normale che il geroglifico umanizzato di questo minerale abbia il suo stesso colore caratteristico e che gli si riservi come sede i luoghi sotterranei dei templi.
Ai nostri giorni, le Vergini nere non sono numerose. Ne citeremo alcune, che godono di gran celebrità. La cattedrale di Chartres sotto questo punto di vista è la più favorita; infatti ne possiede due, una, chiamata con l'espressivo nome di Notre-Dame-sous-Terre, è posta nella cripta, ed è seduta su di un trono il cui basamento reca l'iscrizione già nota: Virgini pariturae; l'altra si trova nella chiesa, è chiamata Notre-Dame-du-Pilier, occupa il centro di una nicchia piena di ex voto in forma di cuori che mandano raggi. Witkowski ci dice che quest'ultima è oggetto di devozione da parte d'un gran numero di pellegrini. «Un tempo, aggiunge questo autore, la colonna di pietra che gli fa da supporto era "scavata" dalle lingue e dai denti dei suoi focosi fedeli, come il piede di san Pietro, a Roma, o il ginocchio di Ercole, adorato dai pagani in Sicilia; ma per preservarla da quei baci troppo ardenti, la colonna fu avvolta, nel 1831, con un rivestimento in legno». Chartres, con la sua Vergine sotterranea, è considerata la più antica meta dei pellegrinaggi. Un tempo c'era soltanto un'antica statuetta di Iside «scolpita prima di Gesù Cristo», come raccontano alcune antiche cronache locali. Però, l'immagine che possediamo ora data soltanto dalla fine del XVIII secolo, perché quella della dea Iside era stata distrutta non si sa quando, e sostituita con una statuetta in legno, che teneva il Bambino seduto sulle ginocchia, e che, a sua volta, fu bruciata nel 1793.
Quanto alla Vergine nera di Notre-Dame du Puy — le cui membra non sono visibili — ha la forma d'un triangolo, con il vestito che la cinge al collo e si allarga senza pieghe fino ai piedi. La stoffa è decorata con tralci di vite e di spighe di grano — allegorie del pane e del vino eucaristici — e lascia passare, all'altezza dell'ombelico, la testa del Bambino, incoronato altrettanto sontuosamente della madre.
Notre-Dame-de-Confession, celebre Vergine nera delle cripte di Saint-Victor a Marsiglia, ci mostra un bello specimen di statuaria antica, morbida, larga e grassa. Questa figura, piena di nobiltà, tiene nella mano destra uno scettro ed ha la fronte cinta da una corona a triplice fiorone (tav. I).
Notre-Dame de Rocamadour, meta d'un famoso pellegrinaggio, già frequentata nell'anno 1166, è una madonna miracolosa; la tradizione fa risalire la sua origine al giudeo Zaccheo, capo dei pubblicani di Gerico; questa statua sovrasta l'altare della cappella della Vergine, costruita nel 1479. È una statuetta di legno, annerito dal tempo, rivestita da una veste di lamine d'argento che consolidano i resti in legno ormai tarlati. «La celebrità di Rocamadour risale al leggendario eremita, santo Amatore o Amadour, che scolpì in legno la statuetta della Vergine alla quale furono attribuiti parecchi miracoli. Si racconta che Amatore era lo pseudonimo del pubblicano Zaccheo, convertito da Gesù Cristo; venuto in Gallia, avrebbe diffuso il culto della Vergine. Questo culto è molto antico a Rocamadour; però, la gran voga del pellegrinaggio data soltanto dal XII secolo1 (1 La Grande Encyclopédie, t. XXVIII, p. 761.).»
A Vichy si venera, da epoca molto antica, la Vergine nera della chiesa di Saint-Blaise, come testimonia Antoine Gravier, prete partigiano dell'indipendenza dei comuni nel XVII secolo. Gli archeologi datano questa scultura del XIV secolo e, poiché le parti più antiche della chiesa di Saint-Blaise, nella quale è posta, furono costruite solo nel XV secolo, l'abate Allot, segnalandoci questa statua, esprime il parere ch'essa un tempo facesse parte della cappella Saint-Nicolas, fondata nel 1372 da Guillaume de Hames.
Anche la chiesa di Guéodet, chiamata Notre-Dame-de-la-Cité, a Quimper, possiede una Vergine nera.
Camille Flammarion1 (1 Camille Flammarion, l'Atmosphère. Parigi, Hachette, 1888, p. 362.) ci parla d'una statua analoga ch'egli vide, nei sotterranei dell'Osservatorio, il 24 settembre 1871, due secoli dopo la prima osservazione termometrica, che fu fatta nel 1671. Egli scrive : « Il colossale edificio di Luigi XIV che eleva la balaustra della terrazza a ventotto metri dal suolo, scende nel sottosuolo con delle fondazioni che hanno la stessa profondità: ventotto metri. All'angolo d'una galleria sotterranea, si nota una Vergine, messa in quello stesso anno 1671, e dei versi incisi ai suoi piedi la invocano col nome di Notre-Dame di sottoterra). Questa poco conosciuta Vergine parigina, che impersonifica nella capitale il misterioso soggetto di Ermes, sembra che sia una replica di quella di Chartres, la Benedetta Signora sotterranea.
Ancora un particolare utile per l'ermetista. Nel cerimoniale prescritto per le processioni delle Vergini nere, venivano bruciati soltanto ceri di color verde.
Quanto alle statuette d'Iside, — parliamo di quelle che sono sfuggite alla cristianizzazione, — sono ancora più rare delle Vergini nere. Forse sarebbe utile ricercarne la ragione nell'alta antichità di queste icone. Witkowski2 (2 L'Art profane a l'Eglise. Op. cit., p. 26.) ce ne segnala una sistemata nella cattedrale Saint-Etienne, a Metz. «Questa figura in pietra di Iside, scrive l'autore, misura o m. 43 di altezza e o m. 29 di larghezza e proviene dal vecchio chiostro. La sporgenza di questo altorilievo era di o m. 18; rappresentava un busto nudo di donna, ma così magro che, per servirci d'un'espressione figurata dell'abate Brantóme, "non poteva mostrare altro che la carcassa "; la sua testa era coperta da un velo. Due mammelle asciutte pendevano dal suo petto, simili a quelle delle Diane di Efeso. La pelle era tinta di rosso, e il drappo che cingeva la vita era nero... Una statua analoga esisteva a Saint-Germain-des-Prés e a Saint-Etienne de Lyon.»
Tuttavia, il culto di Iside, la Cerere egiziana, era molto misterioso, e tale rimane anche per noi. Sappiamo soltanto che la dea era festeggiata solennemente, ogni anno, nella città di Busiris, e che le veniva sacrificato un bue. Ci dice Erodoto : «Dopo il sacrifìcio, uomini e donne, parecchie migliala, si danno dei grandi colpi. Per quale dio si stanno battendo, sarebbe, io credo, un'empietà dirlo.» I Greci, come gli Egiziani, mantenevano un assoluto silenzio sui misteri del culto di Cerere e gli storici non ci hanno appreso nulla che possa soddisfare la nostra curiosità. La rivelazione ai profani del segreto di queste pratiche era punito con la morte. Ascoltare la divulgazione era considerato un crimine della stessa gravita. Come per i santuari egiziani di Iside, così nei templi di Cerere era rigorosamente vietato l'ingresso a tutti coloro che non avevano ricevuto l'iniziazione. Eppure, le informazioni che ci sono state tramandate, sulla gerarchia dei grandi sacerdoti, ci autorizzano a pensare che i misteri di Cerere dovevano essere dello stesso tipo di quelli della Scienza ermetica. Infatti sappiamo che i ministri del culto si dividevano in quattro gradi: lo Ierofante, incaricato d'iniziare i neofiti; il Porta-fiaccola, che rappresentava il Sole; 1'Araldo, che rappresentava Mercurio; il Ministro dell'Altare, che rappresentava la Luna. A Roma le Cerealies si celebravano il 12 aprile e duravano otto giorni. Veniva portato in processione un uovo, simbolo del mondo, e ad esso venivano sacrificati dei maiali.
Abbiamo detto prima che Die, una statua che rappresentava Iside, era chiamata madre degli dei. Lo stesso epiteto era riservato a Rea o Cibele. Così le due divinità si rivelano parenti assai prossime, e noi saremmo piuttosto dell'idea di considerarle come espressioni diverse d'un solo e unico principio. Charles Vincens conferma questa opinione con la descrizione ch'egli fornisce d'un bassorilievo raffigurante Cibele, che, per secoli, è stato visto all'esterno della chiesa parrocchiale di Pennes (Bouches-du-Rhóne), con la sua iscrizione: Matri Deum. «Questo strano frammento, ci dice il Vincens, è scomparso soltanto intorno al 1610 ma è riprodotto in una incisione nel Recueil di Grosson (p. 20).» Analogia ermetica strana: Cibele era adorata a Pessinunte, in Frigia, sotto la forma di una pietra nera che si diceva essere caduta dal cielo. Fidia rappresenta la dea seduta su di un trono tra due leoni, essa ha sul capo una corona murale dalla quale scende un velo. Talvolta viene raffigurata mentre tiene una chiave e sembra che stia togliendo il velo. Iside, Cerere, Cibele: tre teste sotto lo stesso velo.

 IX

Terminati questi preliminari, dobbiamo adesso intraprendere lo studio ermetico della cattedrale e per porre un limite alla nostra ricerca prendiamo come tipo il tempio cristiano della capitale, Notre-Dame de Paris.
Certo il nostro compito è difficile. Non viviamo più al tempo di messer Bernardo, conte di Treviso, di Zachaire o di Flamel. I secoli hanno lasciato una traccia profonda sulla facciata dell'edificio, le intemperie hanno scavato rughe profonde, ma le distruzioni compiute dal tempo sono ben poca cosa se paragonate a quelle prodotte dai furori umani. Le rivoluzioni hanno inciso la loro impronta, incresciosa testimonianza della collera plebea; il vandalismo, nemico del bello, ha sfogato il suo odio con spaventose mulilazioni, ed anche i restauratori, sebbene ispirati dalle migliori intenzioni, non hanno sempre saputo rispettare ciò che gli iconoclasti avevano risparmiato.
Un tempo, Notre-Dame de Paris innalzava la sua maestà in cima ad una scalinata di undici gradini. Appena isolata, da uno stretto sagrato, dalle case di legno, dagli acuti pignoni disposti a piani in aggetto, essa guadagnava in arditezza ed in eleganza ciò che perdeva in massa. Oggi invece, e grazie all'arretramento, sembra più massiccia quanto più è distaccata, con i portici, i pilastri e i contrafforti poggianti direttamente a terra; i successivi rinterri, a poco a poco, hanno colmato il dislivello e finito con l'assorbirlo fino all'ultimo gradino.
In mezzo a quello spazio limitato, da una parte, dall'imponente basilica e, dall'altra, dal pittoresco agglomerato di piccoli alberghi ornati di frecce, spighe, banderuole, traforati dalle «boutiques» dipinte con le travi scolpite, con le burlesche insegne, scavati agli angoli di nicchie, ornate di madonne o di santi, fiancheggiati da torrette, da garitte di vedetta, da bertesche, in mezzo a questo spazio, dicevamo, era eretta una statua di pietra, alta e sottile, che teneva in una mano un libro e nell'altra un serpente. Questa statua faceva parte d'una fontana monumentale sulla quale si leggeva questo distico:

Qui sitis, huc tendas: desunt si forte liquores,
Pergredere, aeternas diva paravi! aquas.

O tu che hai sete, vieni qui: se per caso mancano le onde,
Per gradi, la Dea ha preparato le acque eterne.

Il popolo lo chiamava ora Signor Legris, ora Venditore di gris, Gran Digiunatore o Digiunatore di Notre-Dame.
Questi strani appellativi hanno ricevuto parecchie interpretazioni ma le espressioni popolari non sono state identificate dagli archeologi e così neppure la statua. La spiegazione migliore è quella che ci da Amédée de Ponthieu1 (1 Amédée de Ponthieu, Légendes du Vieux Paris. Parigi, Bachelin, Deflorenne, 1867, p. 91.), ed essa ci sembra tanto più degna d'interesse, perché l'autore, che non era assolutamente un ermetista, giudica senza pregiudizi e parla senza idee preconcette:
«Davanti a questo tempio, ci racconta parlando di NotreDame, s'innalzava un monalito sacro, reso informe dal tempo. Gli antichi lo chiamavano Febigene2 (2 Generato dal sole o dall'oro), figlio d'Apollo; il popolo lo chiamò più tardi Mastro Pietro, volendo così significare Pietra maestra, pietra di potere3 (3 È la pietra angolare della quale abbiamo parlato.); si chiamava anche messere Legris, allora gris significava fuoco e in particolare fuoco grisù, fuoco fatuo...
«Secondo alcuni, queste informi sembianze ricordano quelle d'Esculapio, o di Mercurio o del dio Termine4 (4 Termini erano dei busti di Ermete (Mercurio)); secondo altri sarebbero le sembianze di Archambaud, maestro di Palazzo sotto Clodoveo II, che aveva regalato il fondo sul quale era stato costruito l'Hôtel-Dieu; altri credevano di scorgere i tratti di Guillaume de Paris, che l'aveva innalzata contemporaneamente al portale di Notre-Dame; l'abate Leboeuf dice di vedervi la figura di Gesù Cristo; altri quella di santa Geneviève, patrona di Parigi.
«Questo monolito fu tolto nel 1748, quando fu allargata la piazza del Sagrato di Notre-Dame.»
All'incirca nello stesso periodo, il capitolo di Notre-Dame ricevette l'ordine di sopprimere la statua di san Cristoforo. Il colosso dipinto in grigio1 (1 Rinascimento N.d.T.), si addossava al primo pilastro di destra, entrando nella navata. Era stata eretta nel 1413 da Antoine des Essarts, ciambellano del re Charles VI. La si volle togliere nel 1772, ma Christophe de Beaumont, allora arcivescovo di Parigi, si oppose formalmente. Solo alla sua morte, nel 1781, la statua fu trainata fuori della città e spezzata. Notre-Dame d'Amiens possiede ancora il buon gigante cristiano che portò il Bambino Gesù, ma non deve essere sfuggito, neppure lui, alla distruzione perché, ora, fa corpo con il muro: è una scultura in bassorilievo. Anche la cattedrale di Siviglia conserva un san Cristoforo colossale e affrescato. Quello della chiesa di Saint-Jacques-la Boucherie fu distrutto insieme all'edificio e la bella statua della cattedrale d'Auxerre, datata 1539, fu distrutta dietro ordini precisi, nel 1768, solo qualche anno prima di quella di Parigi.
Per motivare queste decisioni, è evidente che c'era bisogno di ragioni più che solide. Sebbene sembrino ingiustificate, ci pare che la causa derivi dal significato simbolico ricavato dalla leggenda e condensato — certo troppo chiaramente — dalla rappresentazione. San Cristoforo, di cui Jacques de Voragine ci rivela l'antico nome: Offerus, il cui significato è, secondo la maggioranza, colui che porta il Cristo (dal greco ……..); ma la cabala fonetica svela un altro significato, adatto e conforme alla dottrina ermetica. Cristoforo sta per Crìsoforo: che porta l'oro (dal greco ……..). Si capisce meglio quindi l'alta importanza che, simbolicamente, è rivestita da san Cristoforo. Si tratta del geroglifico dello zolfo solare (Gesù) o dell'oro nascente, innalzato sulle onde mercuriali e poi portato, dall'energia propria di questo Mercurio, al grado di potenza posseduta dall'Elisir. Secondo Aristotele, il Mercurio ha come colore emblematico il grigio o il viola, cosa che in sé basta per spiegare perché le statue di san Cristoforo erano dipinte dello stesso colore. Un certo numero di vecchie incisioni, conservate nel Gabinetto delle Stampe della Biblioteca Nazionale, e che rappresentano il colosso, sono eseguite con un tratto semplice e di color bistro. La più antica di esse è del 1418.
A Rocamadour (Lot) si può ancora vedere una gigantesca sta tua di san Cristoforo, innalzata sul podio Saint-Michel, che precede la chiesa. Accanto si nota un vecchio forziere ferrato, sopra il quale è conficcato nella roccia e tenuto da una catena un grossolano mozzicone di spada. La leggenda vuole che questo frammento sia appartenuto alla famosa Duranda, la spada che il paladino Rolando spezzò aprendo la breccia di Roncisvalle. Comunque sia, la verità che sgorga da questi particolari è assai limpida. La spada che apre la roccia, la verga di Mosè che fa scaturire l'acqua dalla pietra di Horeb, lo scettro della dea Rea, con cui ella colpisce il monte Dindimo, il giavellotto d'Atalanta sono un unico e medesimo geroglifico di questa materia nascosta dei Filosofi, della quale san Cristoforo indica la natura e il forziere ferrato il risultato.
Ci dispiace di non poter dire di più sul magnifico emblema al quale era riservato il primo posto nelle basiliche ogivali. Di queste grandi raffigurazioni, gruppi ammirabili per l'insegnamento che contenevano, non ci resta nessuna descrizione precisa e dettagliata; essefurono fatte sparire da un'epoca decadente e superficiale, senza neanche la scusa d'una indiscutibile necessità.
Il XVIII secolo, regno dell'aristocrazia e del bello spirito, degli abati di corte, delle marchese imbellettate, dei gentiluomini con le parrucche, tempo benedetto dei maestri di ballo, dei madrigali e delle pastorelle alla Watteau, secolo brillante e perverso, frivolo e manierato che doveva finire nel sangue, fu particolarmente nefasto per le cattedrali gotiche.
Gli artisti, trascinati dalla grande corrente di decadenza che ebbe sotto François I il nome paradossale di Renaissance1 (1 Rinascimento. N.d.T.), incapaci d'uno sforzo creativo eguale a quello dei loro antenati, completamente all'oscuro della simbologia medioevale, si dedicarono alla riproduzione di opere bastarde, senza gusto né carattere, senza pensiero esoterico, invece di continuare e sviluppare l'ammirevole e sana creatività francese.
Architetti, pittori, scultori, preferendo la loro gloria a quella dell'Arte, si ispirarono agli antichi modelli contraffatti in Italia.
I costruttori del medioevo erano ricchi di fede e modestia. Artigiani anonimi di puri capolavori, essi costruirono per la Verità, per l'affermazione del loro ideale, per diffondere la nobiltà della loro scienza. Quelli del Rinascimento, invece, preoccupati soprattutto della loro personalità, gelosi del proprio valore, costruirono per rendere famoso il loro nome alla posterità. Il medioevo deve il proprio splendore all'originalità delle proprie creazioni; il Rinascimento deve la sua moda alla servile fedeltà delle sue copie. Là un pensiero, qui una moda. Da un lato, il genio; dall'altro, il talento. Nell'opera gotica, la tecnica resta sottomessa all'Idea: mentre nell'opera rinascimentale la tecnica domina e cancella l'Idea. L'una parla al cuore, al cervello, all'anima: è il trionfo dello spirito; l'altra si rivolge ai sensi: è la glorificazione della materia. Dal XII al XV secolo, povertà di mezzi ma ricchezza d'espressione; a partire dal XVI, bellezza plastica, mediocrità d'invenzione. I mastri medioevali seppero animare il comune calcare; gli artisti del Rinascimento lasciarono il marmo freddo ed inerte.
L'antagonismo di questi due periodi, nati da concezioni opposte, spiega il disprezzo del Rinascimento e la sua profonda ripugnanza per tutto quello che era gotico.
Un tale stato di spirito doveva risultare fatale all'opera del medioevo; e sono dovute proprio ad esso le numerosissime mulilazioni che oggi dobbiamo deplorare.






PARIGI


I

La cattedrale di Parigi, come la maggioranza delle basiliche metropolitane, è posta sotto l'invocazione della benedetta Vergine Maria o Vergine-Madre. In Francia il popolino chiama queste chiese le Notre-Dame. In Sicilia, esse hanno un nome ancora più espressivo, quello di Matrici. Si tratta, quindi, proprio di templi dedicati alla Madre (lat. mater, matris), alla Matrone nel senso primitivo, questo termine, per corruzione, è diventato poi Madone1 (1 Si è preferito lasciare il vocabolo francese per una migliore comprensione del passaggio tra Matrone e Madone N.d.T.) (ital. madonna), mia Signora e, per estensione, Notre-Dame. Attraversiamo il cancello del porticato ed iniziamo lo studio della facciata del gran portale, chiamato atrio centrale o del Giudizio.
Il pilastro di mezzo, che divide in due il vano d'ingresso, ci offre una serie di rappresentazioni allegoriche delle scienze medioevali. Di fronte al Sagrato, — ed al posto d'onore, — l'alchimia è raffigurata da una donna la cui fronte tocca le nubi. Seduta in trono, ella ha nella mano sinistra uno scettro — segno di sovranità — mentre con la destra tiene due libri, uno chiuso (esoterismo) e l'altro aperto (essoterismo). Mantenuta tra le sue ginocchia e poggiata sul suo petto si eleva la scala dai nove gradini, — scala philosophorum, — geroglifico della pazienza che deve essere posseduta dai suoi fedeli nel corso delle nove successive operazioni della fatica ermetica (tav. II). «La pazienza è la scala dei Filosofi, ci dice Valois1 (1 Oeuvres de Nicolas Grosparmy et Nicolas Valois. Mss. Biblioteca dell'Arsenal n. 2516 (166 S.A.F.), p. 176), e l'umiltà è la porta del loro giardino, perché a chiunque persevererà senza orgoglio e senza invidia. Dio farà misericordia.»
Tale è il titolo del capitolo filosofale di quel mutus Liber rappresentato dal tempio gotico; tale il frontespizio di questa Bibbia occulta dai massicci fogli di pietra; questa l'impronta, il sigillo della Grande Opera laica sul frontone stesso della Grande Opera cristiana. Non poteva essere meglio situato se non sulla soglia stessa dell'ingresso principale.
Così la cattedrale ci appare basata sulla scienza alchemica, investigatrice delle trasformazioni della sostanza originale, della Materia elementare (lat. materea, radice mater, madre). Perché la Vergine-Madre, spogliata del suo velo simbolico, non è altro che la personificazione della sostanza primitiva, di cui si è servito, per realizzare i suoi fini, il Principio creatore di tutto ciò che esiste. Questo è il significato, del resto assai chiaro, di quella singolare epistola che viene letta alla messa dell'Immacolata-Concezione della Vergine ed eccone il testo:
«Il Signore mi ha posseduta all'inizio delle sue vie. Io ero prima che egli plasmasse qualsiasi altra creatura. Io ero nell'eternità prima che venisse creata la terra. Gli abissi non erano ancora ed io ero già concepita. Le sorgenti non erano ancora uscite dalla terra; la pesante massa delle montagne non era stata ancora formata; ero già nata prima delle colline. Egli non aveva ancora creato ne la terra, ne i fiumi, ne consolidato la terra mediante i due poli. Quando egli preparava i Cieli, io ero presente; quando circoscrisse gli abissi con i loro limiti e stabilì una legge inviolabile; quando stabilizzò l'aria attorno alla terra; quando equilibrò l'acqua delle sorgenti; quando rinchiuse il mare nei suoi limiti e quando impose una legge alle acque perché non superassero i confini loro assegnati; quando gettò le fondamenta della terra, io ero con lui e regolavo tutte le cose.»
Chiaramente qui si tratta dell'essenza stessa delle cose. E, infatti, le litanie c'insegnano che la Vergine è il Vaso che contiene lo Spirito delle cose: Vas spirituale. Scrive Etteilla1 (1 Etteilla, Le Denier du Pauvre, nelle Sept nuances de l'Oeuvre philosophique s.l.n.d. (1786), p. 57.): «Su di un tavolo, all'altezza del petto dei Magi c'erano, da un lato un libro o un in sieme di fogli o lamine d'oro (il libro di Thot) e dall'altro lato un vaso pieno d'un liquore celeste-astrale, composto per un terzo di miele selvatico, d'una parte d'acqua terrestre e d'una parte d'acqua celeste... Il segreto, il mistero, dunque, stava nel vaso
Questa Vergine singolare, — Virgo singularis, come l'indica espressamente la Chiesa, — è, per di più, glorificata con degli epiteti che indicano sufficientemente la sua origine positiva. Non è chiamata, infatti, anche: Palma della Pazienza (Palma patientiae); Giglio tra le spine2 (2 È il titolo di manoscritti alchemici celebri di Agricola e di Ticinensis. Vedi biblioteche di Rennes (159); di Bordeaux (533); di Lyon (154); di Cambrai (919)) (Lilium inter spinas); Miele simbolico di Sansone; Chioma di Gedeone; Rosa mistica; Porta del Cielo; Casa d'Oro, ecc.? Gli stessi testi chiamano Maria anche Sede della Saggezza, in altri termini Soggetto della Scienza ermetica, della sapienza universale. Nel simbolismo dei metalli planetari è rappresentata dalla Luna, che riceve i raggi del Sole e li conserva segretamente nel suo seno. È la dispensatrice della sostanza passiva, animata dallo spirito solare. Quindi Maria, Vergine e Madre, rappresenta la forma; mentre Elia, il Sole, Dio, il Padre è l'emblema dello spirito vitale. Dall'unione di questi due principi scaturisce la materia vivente, sottomessa alle vicissitudini delle leggi di mutazione e di progressione. È, cioè. Gesù, lo spirito incarnato, il fuoco corporificato nelle cose che ci sono familiari quaggiù :
e il verbo si è fatto carne, ed ha abitato tra di noi
Del resto la Bibbia c'insegna che Maria, madre di Gesù, era del ramo di Jessé. Ora, la parola ebrea Jes significa fuoco, sole, divinità. Essere del ramo di Jessé, significa quindi, essere della razza del fuoco, del sole. Poiché la materia trae origine dal fuoco solare, come abbiamo visto, il nome stesso di Jésus1 (1 Gesù N.d.T.) ci appare nel suo originale splendore celeste: fuoco, sole, Dio.
Infine, nell'Ave Regina, la Vergine è chiamata propriamente Radice (Salve, radix); quest'appellativo fa notare ch'ella è il principio e l'inizio di Tutto. «Salve, o radice, attraverso la quale la Luce ha brillato sul mondo.»
Queste sono le riflessioni suggerite dall'espressivo bassorilievo che accoglie il visitatore sotto il portico della basilica. La Filosofia ermetica, le vecchia Spagiria gli danno il benvenuto nella chiesa gotica, tempio alchemico per eccellenza. Perché la cattedrale tutt'intera non è altro che una glorificazione muta, ma espressa con immagini, dell'antica scienza di Ermes di cui essa ha saputo, del resto, conservare uno degli antichi artigiani. Infatti, Notre-Dame de Paris conserva il proprio alchimista.
Se spinti dalla curiosità, o per dare uno scopo piacevole alla passeggiata senza meta d'un giorno d'estate, salite la scala a chiocciola che porta alle parti alte dell'edifìcio, percorrete lentamente il passaggio, scavato come un canale per lo smaltimento delle acque, sulla sommità della seconda galleria. Giunti vicino all'asse mediano del grande edificio, all'altezza dell'angolo rientrante della torre settentrionale, noterete, in mezzo ad un corteo di chimere, il sorprendente rilievo d'un grande vecchio di pietra. È lui, è l'alchimista di Notre-Dame (tav. III).
Col capo coperto dal cappello frigio, attributo dell'Adeptato2 (2 II berretto frigio, che copriva il capo dei sanculotti e costituiva una specie di talismano protettore, in mezzo alle stragi della rivoluzione, era il segno distintivo degli Iniziati. Il dotto Pierre Dujois, — nell'analisi che egli fa di un'opera di Lombard (de Langres) intitolata: Histoire des Jacobins, depuis 1789 jusqu'à ce jour, ou Etat de l’'Europe en novembre 1820 (Parigi, 1820) — scrive che giunto al grado di Epopte (nei Mystères d'Eleusis), «si chiedeva al novizio se si sentiva la forza, la volontà e la dedizione richieste per porre mano alla GRANDE OPERA. Allora gli si posava in capo un berretto rosso, pronunciando queste parole: «Copriti con questo berretto, vale più della corona d'un re». Si era, quindi, ben lontani dal pensare che questo tipo di petaso, chiamato liberia nelle Mithriache, e che un tempo serviva ad indicare gli schiavi affrancati, fosse un simbolo massonico e il segno supremo dell'Iniziazione. Non ci si stupirà più di vederlo raffigurato sulle nostre monete ed i nostri monumenti pubblici».), posato negligentemente sulla lunga capigliatura dai grandi riccioli, il saggio, avvolto nel leggero camice di laboratorio, s'appoggia con una mano alla balaustra, mentre, con l'altra, accarezza la propria barba abbondante e serica. Egli non medita, osserva. L'occhio è fìsso; lo sguardo possiede una straordinaria acutezza. Tutto, nell'atteggiamento del Filosofo, rivela una estrema emozione. La curvatura delle spalle, lo spostamento in avanti della testa e del busto tradiscono, infatti, una grande sorpresa. In verità, questa mano pietrificata sembra animarsi. È forse un'illusione? Sembra di vederla tremare...

Che splendida figura questa del vecchio maestro che scruta, interroga, curioso ed attento, l'evoluzione della vita minerale, e poi, infine, abbagliato, contempla il prodigio che solo la propria fede gli faceva intravedere!
E come sembrano misere le moderne statue dei nostri scienziati, — che siano colate in bronzo o scolpite nel marmo, — in confronto a questa raffigurazione venerabile, dal realismo così potente nella sua semplicità!

 II

Lo Stilobate della facciata che si sviluppa e si estende sotto i tre portici, è un vero tesoro per il decifratore di enigmi ermetici, tanto esso è ricco d'immagini strane ed istruttive.
È qui che troviamo il nome lapidario del soggetto dei Saggi; qui assistiamo all'elaborazione del solvente segreto; qui, infine, seguiremo passo per passo il lavoro dell'Elisir, dalla prima calcinazione fino all'ultima cottura.
Ma, per mantenere in questo studio un certo metodo, seguiremo sempre l'ordine di successione delle figure, andando dall'esterno verso i battenti del portico, come farebbe un fedele che entri nel santuario.
Sulle facce laterali dei contrafforti che limitano il grande portale, troveremo, all'altezza degli occhi, due piccoli bassorilievi incastrati ciascuno in un'ogiva. Quello del pilastro sinistro ci presenta l'alchimista che scopre la Fontana misteriosa, quello che il Trevisano descrive nella Parabola finale del suo libro sulla Philosophie naturelle des Métaux l (l Vedi J. Mangin de Richebourg, Bibliothèque des Philosophes Chimiques, Parigi 1741, t. II, trattato VII.).
L'artista ha camminato a lungo, ha vagato per false vie e per dubbi sentieri; ma finalmente la sua gioia esplode! Il ruscello di acqua viva scorre ai suoi piedi; sgorga, gorgogliando, dalla vecchia quercia cava2 (2 «Nota questa quercia», dice semplicemente Flamel nel Livre des Figures hiéroglyphiques.). Il nostro Adepto ha colpito nel segno. E così, dimenticandosi dell'arco e delle frecce con le quali, allo stesso modo di Cadmo, ha trafìtto il drago, guarda ondeggiare la limpida sorgente la cui virtù solvente e la cui essenza volatile gli sono confermate da un uccello appollaiato sull'albero (tav. IV).
Ma qual è quell'occulta Fontana? Qual è la natura di questo potente solvente capace di penetrare tutti i metalli, — in particolare l'oro, — e di compiere, con l'aiuto del corpo disciolto, tutt'intera la Grande Opera? — Questi sono enigmi così profondi che hanno respinto un numero considerevole di ricercatori; tutti o quasi si sono inutilmente accaniti contro questo muro impenetrabile, elevato dai Filosofi a difesa della loro cittadella.
 La mitologia la chiama Libethra* (* Vedi: Noël, Dictionnaire de la Fable, Paris, Le Normant, 1801) e ci racconta che era una sorgente di Magnesia, e che nelle vicinanze c'era un'altra sorgente chiamata La Roccia. Ambedue scaturivano da una grossa roccia la cui forma assomigliava ad un seno di donna; di modo che l'acqua sembrava colare da due mammelle come se fosse latte. Ora, noi sappiamo che gli antichi autori chiamano la materia dell'Opera la mostra Magnesia e che il liquore estratto da questa magnesia è chiamato Latte della Vergine. Questa è un'indicazione. Abbastanza chiara e sufficientemente espressiva è poi l'allegoria del miscuglio o della combinazione di quest'acqua primitiva, derivata dal Caos dei Saggi, con una seconda acqua di natura differente (sebbene sia dello stesso genere). Da questa combinazione deriva una terza acqua che non bagna le mani e che i Filosofi hanno chiamato talvolta Mercurio, talvolta Zolfo a seconda che considerassero la qualità di questa acqua o il suo aspetto fisico.
Nel trattato dell’Azoto* (* Azoth o Moyen de fair l’Or caché des Philosophes di Frate Basilio Valentino, Parigi, Pierre Moët, 1659, p. 51), attribuito al celebre monaco di Erfurt, Basilio Valentino, e che sarebbe invece opera di Senior Zadith, si nota una xilografia che rappresenta una ninfa o sirena incoronata che nuota in mare e che fa zampillare, dai suoi seni rigonfi, due zampilli di latte che si mescolano con i flutti.
Gli autori arabi chiamano questa Sorgente col nome di Holmat; e ci insegnano anche che le sue acque diedero l’immortalità al profeta Elia (parola greca, sole). Essi pongono questa famosa sorgente nel Modhallam, la cui radice significa Mare oscuro e tenebroso, spiegazione che indica perfettamente la confusione elementare che i Saggi attribuiscono al loro Caos o materia primitiva.
Un dipinto, che non è altro che la replica della favola appena citata, si trovava nella piccola chiesa di Brixen (Tirolo). Questo strano quadro, descritto da Misson e segnalato da Witkowski* (* G. J. Witkowski, L’art profane à l’Eglise, Etranger, p. 63), sembra essere la versione religiosa dello stesso tema chimico: «Gesù fa colare in un grande bacile il sangue che sgorga dal suo fianco, ferito dalla lancia di Longino; la Vergine preme le sue mammelle, e il latte che zampilla cade nello stesso recipiente. Ciò che trabocca va in un secondo bacile e si perde in fondo ad un crepaccio infuocato dove le anime del Purgatorio, maschi e femmine, a busto nudo, si precipitano a raccogliere questo liquore prezioso che li consola e li rinfresca.»
Sotto questo vecchio dipinto si legge un’iscrizione in latino di sagrestia:
Dum fluit e Christi benedicto Vulnere sanguis,
Et dum Virgineum lac pia Virgo premit,
Lac fuit et sanguis, sanguis conjungitur et lac,
Et sit Fons Vitae, Fons et Origo boni*
(* «Mentre il sangue cola dalla ferita benedetta del Cristo e la Vergine preme il suo virgineo seno, il latte ed il sangue zampillano e si mescolano, diventano Fontana di Vita e Sorgente di Bene)
Riporteremo qui due descrizioni, che riguardano la Fontana misteriosa e i suoi componenti; tali descrizioni accompagnano le Figure simboliche d’Abramo l’Ebreo, libro che pare, appartenne a Nicolò* (* Recueil de Sept Figures peintes. Biblioteca dell’Arsenal, n. 3047 (153 SAF)), e che questo Adepto teneva esposto nel suo ufficio di scrivano. Ecco i testi originali di due leggende esplicative:
 «Terza figura — È dipinto e rappresentato un giardino cinto di siepi e nel quale vi sono parecchie aiuole. Nel mezzo c'è un vecchio tronco cavo di quercia, ai piedi del quale, su di un lato, c'è un roseto dalle foglie d'oro, con rose bianche e rosse, che circonda questa quercia fino ad una certa altezza, prossima ai rami. E ai piedi di questo tronco cavo di quercia gorgoglia una sorgente, limpida come argento, che si perde sottoterra; tra i molti che la cercano, ci sono quattro ciechi che zappano ed altri quattro che la cercano senza scavare, e pur essendo la fontana davanti ad essi, non riescono a trovarla, tranne uno che la soppesa tra le mani.»
È proprio quest'ultimo personaggio a fare da soggetto nel motivo scolpito a Notre-Dame de Paris. La preparazione del solvente di cui stiamo parlando è riportata nella spiegazione che accompagna la immagine seguente:
«Quarta figura — C'è dipinto un campo, nel quale sta un re incoronato, vestito di rosso, alla moda Ebrea, e che tiene una spada sguainata; due soldati che uccidono i figli di due madri, sedute per terra, che piangono i loro bambini; e due altri soldati che gettano il sangue in un grande tino pieno di quel sangue, in esso il sole e la luna, discendendo dal cielo o dalle nubi, vengono a bagnarsi. Ci sono sei soldati armati con armatura bianca: ed il re è il settimo, sette innocenti morti, e due madri, una vestita di blu che piange, asciugandosi le lacrime con un fazzoletto, l'altra, anch'essa piangente, vestita di rosso
Segnaliamo ancora una figura del libro del Trismosin* (*Vedi Trismosin, La Toyson d'Or. Parigi, Ch. Sevestre, 1612, p. 52.), che è quasi eguale alla terza figura d'Abramo. Si vede una quercia, dalla cui base, cinta da una corona d'oro, nasce un ruscello nascosto che scorre nella campagna. Tra le fronde dell'albero, svolazzano degli uccelli bianchi, tranne un corvo, che sembra addormentato, mentre un uomo, vestito poveramente, salito su di una scala, sta per prenderlo. In primo piano due sofisti, vestiti con ricercatezza di stoffe sontuose, discutono ed argomentano su questo punto della scienza, senza notare la quercia posta dietro di loro, ne vedere la Fontana che scorre ai loro piedi...
Aggiungiamo, infine, che la tradizione esoterica della Fontana di Vita o Fontana di Giovinezza si ritrova materializzata nei Pozzi sacri posseduti, nel medioevo, dalla maggior parte delle chiese gotiche. L'acqua che vi si attingeva era considerata di grandi virtù curative e la si usava nella cura di alcune malattie. Abbon, nel suo poema che tratta dell'assedio sostenuto da Parigi contro i Normanni, ci trasmette intere pagine che testimoniano le meravigliose proprietà dell'acqua del pozzo di Saint Germain-des-Prés, scavato in fondo al santuario della celebre abbazia. La stessa fama godeva l'acqua del pozzo di Saint-Marcel, a Parigi, scavato nella chiesa stessa, vicino alla pietra tombale del venerabile vescovo; questa acqua, secondo Grégoire de Tours, si rivelò un efficacissimo specifico per parecchie malattie. Ancor oggi esiste, all'interno della basilica gotica di Notre-Dame de Lépine (Marne), un pozzo miracoloso, chiamato Pozzo della Santa Vergine, ed un pozzo analogo sta in mezzo al coro di Notre-Dame de Limoux (Aude); la sua acqua, si dice, guarisce tutte le malattie; esso reca quest'iscrizione:
 Omnis qui bibit hanc aquam, si fidem addit, salvus erit.
Chiunque beva di quest'acqua, se vi aggiunge la fede, starà bene.

Presto avremo l'occasione di ritornare su quest'acqua pontica, alla quale i Filosofi hanno dato un gran numero d'epiteti più o meno suggestivi.
Davanti alla decorazione scolpita che riporta le proprietà e la natura dell'agente segreto, sul contrafforte opposto potremo assistere alla cottura del compost filosofale. Questa volta l'artista veglia il prodotto del suo lavoro. Vestita l'armatura, le gambe protette e lo scudo al braccio, il nostro cavaliere è piazzato sulla terrazza di una fortezza, a giudicare dai merli che lo circondano. Con un movimento difensivo, minaccia col giavellotto una forma imprecisa (qualche raggio? un globo di fiamma?), che, purtroppo, è impossibile identificare tanto il rilievo è ormai mutilato. Dietro il combattente, c'è un piccolo edificio bizzarro, formato da un basamento centinato, merlato, e sorretto da quattro pilastri, ricoperto da una volta segmentata a chiave sferica. Sotto la volta del basamento, una massa aculeiforme e fiammeggiante sta a precisarne la destinazione. Questo strano torrione, castello in miniatura, è lo strumento della Grande Opera, l’Athanor, l'occulto forno dalle due fiamme, — una potenziale e l'altra virtuale, — che tutti i discepoli conoscono e che numerose descrizioni e incisioni hanno contribuito a volgarizzare (tav. V).
Immediatamente al di sotto di queste figure sono riprodotti i due soggetti che sembrano esserne il complemento. Ma, poiché l'esoterismo in esse contenuto si nasconde sotto l'aspetto sacro e le scene bibliche, eviteremo di citarli, per non rischiare il demerito d'una interpretazione arbitraria. Alcuni grandi sapienti, tra gli antichi maestri, non hanno avuto timore di spiegare alchemicamente le parabole delle sante Scritture, tanto il loro significato è suscettibile di diverse interpretazioni. La Filosofia ermetica invoca spesso la testimonianza della Genesi per analogia al primo lavoro dell'Opera; una gran quantità d'allegorie del vecchio e del nuovo Testamento assumono un imprevisto rilievo a contatto con l'alchimia. Questi precedenti potrebbero servirci sia ad incoraggiarci sia a servirci di scusa; ma noi preferiamo limitarci esclusivamente a quei motivi il cui carattere profano è indiscutibile, lasciando agli investigatori benevoli la facoltà d'eseritare sugli altri bassorilievi la propria sagacia.

III

Gli argomenti ermetici dello stilobate si sviluppano su due file sovrapposte, a destra e a sinistra del portico. La fila inferiore è composta di dodici medaglioni e quella superiore di dodici figure. Quest'ultime rappresentano dei personaggi seduti su dei basamenti ornati di scanalature dal profilo ora concavo, ora angoloso, e posti tra gli intercolumni delle arcate trilobate. Tutti questi soggetti scolpiti hanno dei dischi ornati con veri emblemi riferentisi al lavoro alchemico.
Se iniziamo dalla fila superiore, dal lato sinistro, il primo bassorilievo ci mostrerà l'immagine del corvo, simbolo del colore nero. La donna che lo tiene sulle sue ginocchia simboleggia la Putrefazione (tav. VI).
Ci sia permesso di fermarci un attimo sul geroglifico del Corvo, perché esso nasconde un punto importante della nostra scienza. Esso rappresenta, infatti, nella cottura del Rebis filosofale, il color nero, primo segno visibile della decomposizione, conseguenza della perfetta miscela delle materie contenute nell'Uovo. Secondo i Filosofi, è il sicuro segno del successo futuro, la prova evidente dell'esatta preparazione del compost. In un certo modo, il Corvo è il sigillo canonico dell'Opera, come la stella è la firma del soggetto iniziale.
Ma questa nerezza, sperata dall'artista, da lui attesa con ansietà, la cui apparizione colma i suoi voti e lo riempie di gioia, non si manifesta solo durante la cottura. L'uccello nero appare varie volte, e questa frequenza permette agli autori di seminare la confusione nell'ordine delle operazioni.
Secondo Le Breton* (*Le Breton, Clefs de la Philosophie Spagyrique, Parigi, Jombert, 1722, p. 282.), «ci sono quattro putrefazioni nell'Opera filosofica. La prima nella prima separazione; la seconda nella prima congiunzione; la terza nella seconda congiunzione, fatta dall'acqua pesante col suo sale; la quarta, infine, nella fissazione dello zolfo. In ciascuna di queste putrefazioni arriva il colore nero
I nostri vecchi maestri hanno potuto facilmente coprire l'arcano con uno spesso velo, mescolando le qualità specifiche delle diverse sostanze, durante le quattro operazioni che mostrano il color nero. E quindi diventa assai laborioso separare e distinguere nettamente ciò che è specifico di ciascuna di esse.
Ecco alcune citazioni che potranno illuminare l'investigatore e permettergli di riconoscere la strada in questo tenebroso labirinto:
Il Cavaliere Sconosciuto* (*La Nature à découvert, dello Chevalier Inconnu. Aix, 1669.) scrive: «Nella seconda operazione, l'artista prudente fissa l'anima generale del mondo nell'oro comune e rende pura l'anima terrestre e immobile. In quest'operazione, la putrefazione che essi chiamano Testa di Corvo, è molto lunga. Essa è seguita, poi, da una terza moltiplicazione con l'aggiunta di materia filosofica o anima generale del mondo.»
In queste righe sono chiaramente indicate due operazioni successive, la prima delle quali termina e la seconda comincia dopo l'apparizione della colorazione nera, cosa che non avviene con la cottura.
Un prezioso manoscritto anonimo del XVIII secolo* (*La Clef du Cabinet hermétique. Manoscritto del XVIII secolo di Anonimo, s.l.n.d.), cosi ci parla della prima putrefazione, che non va confusa con le altre:
«Se la materia non si è putrefatta e mortificata, è detto in questa opera, non potrete estrarre i nostri principii ed i nostri elementi; per aiutarvi in questa difficoltà, vi indicherò i segni necessari per riconoscerla. Anche alcuni Filosofi l'hanno notata. Morien dice: bisogna notare una certa acidità ed essa deve avere un certo odore di sepolcro. Filalete dice ch'essa deve apparire come se ci fossero degli occhi di pesce, cioè delle piccole bollicine sulla superfìcie, sì da sembrare che stia schiumando; perché questo è un segno che la materia fermenta e che sta bollendo. Questa fermentazione è molto lunga e bisogna avere molta pazienza, perché essa si compie per mezzo del nostro fuoco segreto che è il solo agente che può aprire, sublimare e putrefare.»
Ma, tra tutte queste descrizioni, quelle che si riferiscono al Corvo (o color nero) della cottura sono molto più numerose e le più ricercate, perché esse racchiudono tutte le caratteristiche delle altre operazioni.
Bernardo il Trevisano* (* Bernardo il Trevisano, La Parole délaissée, Paris, Jean Sarà, 1618, p. 39.) cosi si esprime:
«Notate dunque che, quando il nostro compost comincia ad essere inumidito con la nostra acqua permanente allora comincia a cambiare divenendo in tutto simile alla pece fusa, ed è tutto nero, come il carbone. A questo punto il nostro compost è chiamato: pece nera, sale bruciato, piombo fuso, ottone sporco, Magnesia e Merlo di Jean. Perché a quel punto è venuta una nube nera, volando nella parte intermedia del vaso, e con bella e delicata maniera, si è elevata alla superficie del vaso; mentre sul fondo di questo c'è la materia sciolta come pece, che resta totalmente disciolta. Di questa nube parla Jacques del paese di S. Saturimi, dicendo: O nube benedetta che spicchi il volo dal nostro vaso! È questa l'eclissi di sole di cui parla Raimondo* (*L'autore, con questo nome, intende parlare di Raimondo Luilo (Doctor Illuminatus). E quando questa massa si è cosi annerita, si dice che è morta, e che è priva di forma... Quando si è manifestata l'umidità, la massa si presenta colorata come un argento vivo nero e fetido, mentre prima essa era asciutta, bianca, dall'odore piacevole, ardente, e depurata dallo zolfo con la prima operazione; invece, ora deve essere depurata con questa seconda operazione. Per questo, il corpo viene privato della sua anima, del suo splendore e della meravigliosa lucentezza che aveva prima, ed ora è nero e brutto... Que­sta massa nera o annerita, è la chiave* (*Si dà il nome di chiave ad ogni dissoluzione alchemica radicale (cioè irridu­cibile), talvolta questo termine viene esteso ai mestrui o solventi capaci di compierla.), l'inizio ed il segnale che si è perfettamente trovato il modo di operare del secondo regime della nostra preziosa pietra. Perché, dice Ermete, visto il colore nero, sta­te pure certi che avete seguito il sentiero giusto e percorso un buon tratto di strada.»
Batsdorff, autore presunto d'un'opera classica* (*Le Filet d'Ariadne. Parigi, d'Houry, 1695, p. 99.), che altri attri­buiscono invece a Gaston de Claves, insegna che la putrefazione si manifesta quando appare il color nero e che questo è il segno d'un lavoro corretto e conforme alla natura. Egli aggiunge: «I Filosofi gli hanno dato diversi nomi e l'hanno chiamato: Occidente, Tene­bre, Eclissi, Lebbra, Testa di Corvo, Morte, Mortificazione del Mer­curio... Ne risulta, dunque, che con questa putrefazione si separa il puro dall'impuro. Ora, i segni d'una buona e vera putrefazione sono una nerezza assai nera o molto profonda, un odore fetido, cattivo e nauseabondo, chiamato dai Filosofi toxicum et venenum, questo odore non è sentito dall'odorato, ma solo dall'intelletto.»
Chiudiamo qui le citazioni, che potremmo moltiplicare a iosa senza che lo studente ne ricavi gran profitto, e torniamo alle figure ermetiche di Notre-Dame.
Il secondo bassorilievo ci mostra l'effigie del Mercurio filoso­fico: un serpente che si avvinghia intorno ad una verga d'oro. Abra­mo l'Ebreo, conosciuto anche col nome di Eleazar, si servì di que­sto simbolo nel libro che capitò nelle mani di Flamel, — cosa che non ha niente di sorprendente, perché incontriamo questo simbolo in tutto il periodo medioevale (tav. VII).
Il serpente indica la natura aggressiva e solvente del Mercurio, che assorbe avidamente lo zolfo metallico e lo trattiene così forte­mente che la coesione non può più essere vinta. Si tratta del «verme velenoso che contamina tutto col suo veleno », di cui parla l'Ancienne Guerre des Chevaliers* (*Pubblicata, con l'aggiunta d'un commento di Limojon de Saint-Didier, nel Triomphe hermétique o la Pierre philosophale victorieuse. Amsterdam, Weitsten, 1699, e Desbordes, 1710. Quest'opera rara è stata ristampata, da Atlantis, compreso il frontespizio sim­bolico e la sua spiegazione, che spesso mancavano negli esemplari antichi.). Questo rettile indica il Mercurio al suo primo stadio, e la verga d'oro lo zolfo corporale che gli si aggiunge. La soluzione di zolfo o, in altre parole, l'assorbimento di esso da parte del mercurio, ha fornito il pretesto per i più svariati emblemi; ma il corpo risultante, omogeneo e perfettamente preparato, conserva il nome di Mercurio filosofico e l'immagine del caduceo. È la materia o amalgama di primo grado, uovo vetriolato che ha bisogno solo di una cottura graduale per trasformarsi prima in zolfo rosso, poi in Elisir, poi, nel terzo stadio, in Medicina universale. «Nella nostra Opera, affermano i Filosofi, basta il solo Mercurio.»
Più in là c'è una donna dai capelli lunghi che si agitano come fiamme. Ella impersona la Calcinazione, e stringe al petto il disco della Salamandra «che vive nel fuoco e si nutre del fuoco» (tav. VIII). Questa mitica lucertola indica nient'altro che il sale centrale, incombustibile e fisso, che conserva la propria natura anche nelle ceneri dei metalli calcinati e che gli Antichi hanno chiamato Sperma metallico. Nella violenza dell'azione del fuoco, le parti combustibili vengono distrutte; resistono solo le parti pure, inalterabili e, sebbene siano molto stabili, possono essere estratte con la lisciviazione.
Per lo meno questo è il termine spagirico della calcinazione, similitudine di cui si servono spesso gli Autori per esemplificare meglio l'idea generale che si deve avere del lavoro ermetico. Tuttavia i nostri maestri dell'Arte hanno avuto cura d'attirare l'attenzione del lettore sulla differenza fondamentale che esiste tra la calcinazione volgare, come viene realizzata nel laboratorio chimico, e quella che l'Iniziato fa nel gabinetto filosofico. Essa non viene fatta per mezzo del fuoco volgare, non ha assolutamente bisogno dell'aiuto d'un riverbero, ma richiede l'aiuto d'un agente occulto, d'un fuoco segreto che, per dare un'idea della sua forma, ha più l'aspetto d'un'acqua che d'una fiamma. Questo fuoco, questa acqua ardente è la scintilla vitale comunicata dal Creatore alla materia inerte; è lo spirito racchiuso nelle cose, il raggio igneo, imperituro, chiuso nel fondo della sostanza oscura, informe e frigida. Stiamo giungendo qui nel più alto segreto dell'Opera; e saremmo ben felici di tagliare questo nodo di Gordio in favore degli aspiranti alla nostra Scienza, — al ricordo, ahimè! di noi stessi che rimanemmo fermi, a causa di questa difficoltà, per più di vent'anni, — se ci fosse permesso di profanare un mistero la cui rivelazione dipende dal Padre delle Illuminazioni. Con nostro sommo dispiacere non possiamo far altro che segnalare l'ostacolo e consigliare, con i più eminenti filosofi, l'attenta lettura di Artephius* (* Le secret Livre d'Artephius, nei Trois Traitez de la Philosophie naturelle, Parigi. Marette, 1612.), di Pontanus* (* Pontanus, De Lapide Philosophico. Francofurti, 1614.), e della piccola opera intitolata: Epistola de Igne Philosophorum* (* Manoscritto della Biblioteca Nazionale, 19969.) Vi si troveranno preziose indicazioni sulla natura e le caratteristiche di questo fuoco acqueo o di questa acqua ignea, indicazioni che potranno essere completate con i due testi seguenti.
L'autore anonimo dei Precetti del Padre Abramo dice: «Questa acqua primitiva e celeste dev'essere estratta dal corpo nel quale essa si trova; secondo noi, è chiamata con un nome di sette lettere, e rappresenta lo sperma primigenio di tutti gli esseri, non specificato e non determinato nella casa dell'Ariete per generare suo figlio. A questa acqua i Filosofi hanno dato tanti nomi, è il solvente universale, la vita e la salute di ogni cosa. I Filosofi dicono che in quest'acqua si bagnano il sole e la luna, che anch'essi si risolvono in acqua, loro origine prima. È per questo fatto che si dice ch'essi muoiono, ma i loro spiriti sono portati sulle acque di questo mare nel quale sono sepolti... Sebbene si dica, figlio mio, che ci sono altri metodi per risolvere questi corpi nella loro materia prima, attieniti a quello che io ti spiego, perché lo conosco per esperienza e nei modi in cui ci è stato tramandato dagli Antichi.»
Anche Limojon de Saint-Didier scrive: «... Il fuoco segreto dei Saggi è un fuoco che l'artista prepara secondo l'Arte, o almeno che egli può far preparare da coloro che posseggono una perfetta conoscenza della chimica. Questo fuoco non è caldo sul momento, ma è uno spirito igneo se introdotto in una cosa della stessa natura della Pietra, e, eccitato un poco dal fuoco esteriore, la calcina, la discioglie, la sublima, e la risolve in acqua asciutta, come dice il Cosmopolita.»
Del resto, presto scopriremo altre figure che riguardano sia la fabbricazione, sia le qualità di questo fuoco segreto rinchiuso in un'acqua che costituisce, poi, il nostro solvente universale. La materia necessaria alla sua preparazione è proprio l'argomento del quarto motivo: un uomo mostra l'immagine dell’Ariete e tiene, con la mano destra, un oggetto, che purtroppo, oggi non è possibile individuare (tav. IX). È forse un minerale, un frammento di qualche attributo, un utensile oppure anche un pezzo di stoffa? Non lo sappiamo. Il tempo ed il vandalismo sono passati di qui. Eppure l'Ariete resta e l'uomo, geroglifico del principio metallico maschile, ce ne mostra la figura. Ciò ci aiuta a capire queste parole di Pernety: «Gli Adepti dichiarano d'estrarre il loro acciaio dal Ventre dell’Ariete e chiamano calamità anche questo acciaio
Viene poi l'Evoluzione: essa ci mostra l'orifiamma dai tre pennoni, triplicità dei Colori dell'Opera, che si trovano descritti in tutte le opere classiche (tav. X).
Questi tre colori si succedono secondo l'ordine invariabile che va dal nero al rosso passando per il bianco. Ma, poiché la natura, secondo il vecchio proverbio, — Natura non facit saltus, — non fa nulla bruscamente, ci sono molti altri colori intermediari che appaiono tra questi tre principali. Ma l'artista non li considera perché sono superficiali e passeggeri. Essi recano solo il messaggio della continuità e della progressione delle mutazioni interne. Per quel che riguarda i colori essenziali, essi durano più a lungo che non le altre sfumature transitorie e intaccano più profondamente la materia, segnando un cambiamento di stato della sua costituzione chimica. Non si tratta quindi, di tinte evanescenti, più o meno brillanti, che appaiono sulla superficie del bagno, ma sono proprio colorazioni della massa che si rivelano anche in superficie ed assorbono tutte le altre. Crediamo che sia stato un bene, l'aver precisato un punto cosi importante.
Queste fasi colorate, specifiche della cottura nella pratica della Grande Opera, hanno sempre servito come prototipo simbolico; a ciascuna di esse fu attribuito un significato preciso, e spesso assai esteso, per esprimere sotto il loro velo alcune verità concrete. Per questo è esistita, in ogni tempo, una lingua di colori, unita intimamente alla religione, come ci dice Portal* (*Frédéric Portal, Des Couleurs Svmboliques. Parigi, Treuttel et Würtz, 1857, p.2.), e che nel medioevo riappare sulle vetrate delle cattedrali gotiche.
Il color nero fu attribuito a Saturno, che, in spagiria, divenne il geroglifico del piombo, in astrologia un pianeta malefico, nella scienza ermetica il drago nero o Piombo dei Filosofi, in magia la Gallina nera, ecc. Nei templi d'Egitto, quando il candidato era sul punto di superare le prove d'iniziazione, un sacerdote gli si avvicinava e gli suggeriva all'orecchio questa frase misteriosa: «Ricordati che Osiride è un dio nero!» È il colore simbolico delle Tenebre e delle Ombre cimmerie, quelle di Satana, al quale si offrivano delle rose nere, ed è anche il colore del Caos primitivo, nel quale gli spermi di tutte le cose sono confusi e mescolati; è la sabbia della scienza araldica e l'emblema dell'elemento terra, della notte e della morte.
Come nella Genesi il giorno succede alla notte, la luce succede all'oscurità. Essa ha come segno distintivo il color bianco. I Saggi ci assicurano che, quando la materia è giunta a questo stadio, è ormai libera da ogni impurità, perfettamente lavata ed esattamente purificata. Essa si presenta allora sotto l'aspetto di granuli solidi o corpuscoli brillanti, dai riflessi adamantini e d'una splendente bianchezza. Il bianco è stato anche applicato alla purezza, alla semplicità, all'innocenza. Il color bianco è quello degli Iniziati, perché l'uomo che abbandona le tenebre per seguire la luce, passa dallo stadio profondo a quello d'Iniziato, di puro. Spiritualmente si è rinnovato. Pierre Dujois scrive: «II termine di Bianco, è stato scelto per delle ragioni fìlosofìche assai profonde. Il color bianco, — come attesta la maggioranza delle lingue, — ha sempre indicato la nobiltà, il candore, la purezza. Secondo il celebre Dizionario-Manuale ebreo e caldeo di Genesius, hur, heur, significa essere bianco; hurim, heurim indica i nobili, i bianchi, i puri. Questa trascrizione dall'ebreo, più o meno variabile (hur, heur, hurim, heurim) ci conduce alla parola heureux* (*Felice N.d.T.). I bienheureux* (*Beati N.d.T.), — quelli che sono stati rigenerati e lavati col sangue dell'Agnello, — sono sempre rappresentati con degli abiti bianchi. Nessuno ignora che beato è l'equivalente, il sinonimo di Iniziato, di nobile, di puro. E gli Iniziati vestivano di bianco. I nobili si vestivano allo stesso modo. Anche i Mani, in Egitto, erano vestiti di bianco. Ftah, il Rigeneratore, era avvolto di bianco, per indicare la nuova nascita dei Puri o dei Bianchi. I Catari, setta alla quale appartenevano i Bianchi di Firenze, erano i Puri (dal greco …..). In latino, in tedesco, in inglese, le parole Weiss, White, significano bianco, felice, spirituale, saggio. Invece, in ebreo, schher indica un colore nero di transizione; cioè il profano che cerca la iniziazione. Portai dice che l'Osiride nero, che appare all'inizio del Rituale funebre, rappresenta questo stato d'animo che passa dalla notte al giorno, alla morte alla vita
Quanto al color rosso, simbolo del fuoco, indica l'esaltazione, il predominio dello spirito sulla materia, la sovranità, la forza e l'apostolato. Ottenuta sotto forma di cristallo o di polvere rossa, volatile e fusibile, la pietra filosofale diventa penetrante e adatta a guarire i lebbrosi, cioè a trasmutare in oro i metalli volgari che a causa della loro ossidabilità sono inferiori, imperfetti, « malati o infermi».
Paracelso, nel Livres des Images, cosi parla delle successive colorazioni dell'Opera: «Sebbene esistano alcuni colori elementari — perché l'azzurro è più particolarmente proprio della terra, il verde dell'acqua, il giallo dell'aria e il rosso del fuoco, — tuttavia, i colori bianco e nero si riferiscono direttamente all'arte spagirica, nella quale ritroviamo anche i quattro colori primitivi, cioè il nero, il bianco, il giallo ed il rosso. Il nero è la radice e l'origine degli altri colori; perché ogni materia nera può essere riverberata* (*Cioè scaldata in un forno a riverbero N.d.T.) per il tempo necessario, in modo che i tre altri colori appaiono successivamente e ciascuno a suo tempo. Al nero succede il bianco, il giallo al bianco ed il rosso al giallo. Ora, ogni materia giunta al quarto colore per mezzo della riverberazione è la tintura delle cose del suo tipo, cioè della propria natura.»
Per dare un'idea dell'estensione assunta dalla simbologia dei colori, — e specialmente dai tre colori maggiori dell'Opera, — notiamo che la Vergine è sempre rappresentata drappeggiata in blu (corrispondente al nero, come spiegheremo in seguito), Dio in bianco e il Cristo in rosso. Sono questi i colori nazionali della bandiera francese, che, del resto, fu composta dal massone écribouille* (* Intraducibile in italiano N.d.T.) Louis David. In esso il blu scuro o il nero rappresenta la borghesia; il bianco rappresenta il popolo, gli uomini comuni e i contadini, ed il rosso è riservato all’autorità o alla sovranità. In Caldea, le Ziggurat, che normalmente erano delle torri a tre piani, ed alla cui categoria appartiene anche la famosa Torre di Babele, erano rivestite di tre colori: nero, bianco e rosso-porpora.
Fino ad ora abbiamo parlato dei colori da un punto di vista soltanto teorico, e, come i Maestri hanno fatto prima di noi, per obbedire alla dottrina filosofica e all'espressione tradizionale. Ora sarebbe forse conveniente scrivere, in favore dei Figli della Scienza, qualcosa che riguardi la pratica e non la speculazione, per scoprire, così, che cosa differenzia la similitudine dalla realtà.
Pochi Filosofi hanno osato avventurarsi su questo terreno infido. Etteilla* (* Vedi il Denier du Pauvre o la Perfection des métaux. Parigi,circa 1785, p. 58.) ci ha segnalato un quadro* (* Questo quadro sarebbe stato dipinto verso la metà del XVII secolo.) dell'argomento ermetico che egli avrebbe posseduto, e ci ha conservato alcune leggende poste sotto di esso; tra di esse, si legge, non senza sorpresa, questo consiglio degno d'essere seguito: Non vi riferite troppo al colore. — Che c'è da aggiungere? Forse i vecchi autori hanno deliberatamente ingannato i loro lettori? E quale indicazione i discepoli d'Ermes dovranno sostituire ai colori che mancano per riconoscere e seguire la dritta via?
Fratelli, cercate senza scoraggiarvi, perché qui come in altri punti oscuri dovete compiere un grande sforzo. Voi avete certo letto, in parecchi passi dei vostri libri che i Filosofi parlano chiaramente solo quando vogliono allontanare i profani dalla loro Tavola rotonda. Le descrizioni fornite dei loro regimi, ai quali attribuiscono delle colorazioni emblematiche, sono d'una perfetta chiarezza. Dovete dunque concludere che queste osservazioni, descritte così bene, sono false e chimeriche. I vostri libri, come quello dell'Apocalisse, sono chiusi da sigilli ermetici. Dovete spezzarli uno per uno. Il compito è faticoso, lo riconosciamo, ma vincendo senza pericolo si trionfa senza gloria.
Imparate, dunque, non in che cosa un colore si distingue da un altro, ma piuttosto con che cosa si distingue un regime da un altro. E, per prima cosa, che cos'è un regime? — Semplicemente il modo di far vegetare, di mantenere e d'accrescere la vita che la vostra pietra ha ricevuto alla sua nascita. Si tratta, quindi, d'un modus operandi, che non è forzatamente tradotto in una successione di colori diversi. Filalete scrive: «Chi conoscerà il Regime sarà onorato dai principi e dai grandi della terra.» Lo stesso autore aggiunge: «Noi non vi nascondiamo nient'altro che il Regime.» Ora, per non attirare sul nostro capo la maledizione dei Filosofi, rivelando ciò che essi hanno creduto di dover lasciare nell'ombra, ci accontenteremo d'avvertirvi che il Regime della pietra, cioè la sua cottura, ne contiene parecchie altre, cioè parecchie altre ripetizioni dello stesso modo d'operare. Riflettete, ricorrete all'analogia, e, soprattut­to, non vi allontanate mai dalla semplicità naturale. Pensate che do­vete mangiare tutti i giorni per conservare la vostra vitalità; che vi è indispensabile il riposo perché esso fornisce, da una parte, la dige­stione e l'assimilazione dell'alimento, e, dall'altra, il rinnovamento continuo delle cellule consunte dal lavoro quotidiano. E in più, non dovete forse espellere frequentemente alcuni prodotti eterogenei, scar­ti o residui non assimilabili?
Allo stesso modo, la vostra pietra ha bisogno di nutrimento per aumentare la propria potenza e questo nutrimento deve essere graduale, ed anche variato ad un certo momento. Date prima il lat­te; la dieta a base di carne, più sostanziosa, verrà in seguito. E non dimenticate, dopo ogni digestione di separare gli escrementi, per­ché la vostra pietra potrebbe esserne avvelenata... Seguite, quindi, la natura ed obbeditele il più fedelmente possibile. Quando avrete ac­quistato la conoscenza perfetta del Regime, capirete in che modo conviene effettuare la cottura. Capirete meglio, così, l'apostrofe che Tollius* (*J. lollius. Le Chemin du del Chymique. Trad, del Manuductio ad Coelum Chemicum. Amstelaedami, Janss. Waesbergios, 168) rivolge ai soffiatori, schiavi della lettera: «Andate, e ritira­tevi adesso, voi che cercate con una diligenza infinita i vostri diversi colori nelle vostre bocce di vetro. Mi avete stancato con il vostro nero di corvo; siete altrettanto pazzi di quell'uomo dell'antichità che applaudiva, a teatro, per abitudine, anche s'era solo, perché s'immaginava d'aver sempre davanti agli occhi qualche nuovo spettacolo. Lo stesso fate anche voi, quando piangendo dalla gioia v'immaginate di vedere nelle vostre bocce di vetro la vostra bianca colomba, la vo­stra aquila gialla ed il vostro fagiano rosso. Andate, vi ripeto, allon­tanatevi da me, se cercate la pietra filosofale in una cosa fissa; per­ché essa non penetrerà i corpi metallici più di quanto non farebbe il corpo d'un uomo con le più solide mura...
«Ecco ciò che avevo da dire dei colori, perché abbandoniate i vostri inutili lavori in avvenire; aggiungerò a questo qualcosa con­cernente l'odore.
«La Terra è nera, l'Acqua è bianca; l'aria più si avvicina al Sole e più ingiallisce; l'etere è completamente rosso. La morte, come
diciamo tutti, è nera, la vita è piena di luce; più la luce è pura e più essa s'avvicina alla natura angelica e gli angeli sono puri spiriti di fuoco. Ora, l'odore d'un morto o d'un cadavere non è forse molesto e sgradevole all'odorato? Cosi l'odore fetido, di cui parlano i Filosofi, indica la fissazione; al contrario invece l'odore gradevole indica la volatilità, perché essa s'avvicina alla vita ed al calore.»
Tornando al basamento di Notre-Dame, troveremo al sesto posto la Filosofia, il cui disco reca il segno d'una croce. Questo è il simbolo dell'elemento quaternario e la manifestazione dei due principii metallici, sole e luna, — quest'ultima manca, tolta di mezzo a colpi di martello, — o zolfo e mercurio, genitori della pietra, secondo Ermes (tav. XI).


 IV


 I motivi che ornano il lato destro sono di consultazione più difficile; anneriti e consunti, devono il loro deterioramento all'orientamento di questo lato del portico. Spazzati dai venti occidentali, sette secoli di raffiche li hanno sbriciolati fino al punto da ridurre alcuni di essi allo stato di contorni spugnosi e imprecisi.
Sul settimo bassorilievo di questa serie, — il primo a destra, — possiamo notare una sezione longitudinale dell'Athanor e la struttura interna destinata a sostenere l'uovo fìlosofico; nella mano destra il personaggio tiene una pietra (tav. XII).
Nel tondo seguente si vede scolpito un grifone. Il mostro mitologico, la cui testa ed il cui petto sono d'aquila e per il resto del corpo è un leone, inizia lo studioso alle qualità contrarie che necessariamente devono essere congiunte nella materia filosofale (tav. XIII). In quest'immagine troviamo il geroglifico della prima congiunzione, che avviene soltanto poco per volta a mano a mano che procede questo lavoro faticoso e fastidioso che i Filosofi hanno chiamato: aquile. L'intera serie d'operazioni termina con l'unione intima dello zolfo e del mercurio e si chiama anche Sublimazione. Mediante la ripetizione delle Aquile o Sublimazioni filosofiche il mercurio esaltato si spoglia delle sue parti grossolane e terrestri, della propria umidità superflua ed acquista una parte del corpo fisso, ch'egli discioglie, assorbe ed assimila. Far volare l'aquila, secondo l'espressione ermetica, significa far uscire la luce dalla tomba e portarla alla superficie, cosa, questa, caratteristica di ogni vera sublimazione. È quello che c'insegnala favola di Teseo ed Arianna. In questo caso Teseo (parola greca), luce organizzata, manifestata, che si separa da Arianna, il ragno che è al centro della sua tela, la pietra, il guscio vuoto, il bozzolo, la larva della farfalla (Psiche).» Sappi, fratello mio, scrive Filalete* (*Lenglet-Dufresnoy, Histoire de la Philosophie Hermétique, - L'Entrée au Palais Ferme du Roy, t. II, p. 35. Parigi, Coustelier, 1742.), che l'esatta preparazione delle Aquile volanti è il primo stadio della perfezione e per apprenderlo c'è bisogno d'un'intelligenza industriosa ed abile... Per arrivarci noi abbiamo sudato e lavorato molto, abbiamo persino passato delle notti senza dormire. Così tu, che sei soltanto all'inizio, sii convinto che non riuscirai nella prima operazione senza un gran lavoro...
 «Comprendi dunque, fratello mio, ciò che dicono i Saggi, quando sottolineano che portano le loro aquile a divorare il leone; e meno aquile si usano più la battaglia è rude e più difficoltà ci sono per ottenere la vittoria. Ma per perfezionare la nostra Opera, c'è bisogno di non meno di sette aquile, e se ne dovrebbe usare almeno nove. Il nostro Mercurio filosofico è l'uccello d'Ermes che viene chiamato anche Oca o Cigno e talvolta anche Fagiano
Queste sublimazioni sono descritte da Callimaco, nell'Inno a Delo (v. 250, 255), quando dice parlando dei cigni:
 (versi in greco)
«(I cigni) girarono sette volte intorno a Delo... e non avevano ancora cantato l'ottava volta che nacque Apollo.»
Si tratta d'una variante della processione che Giosuè fece fare sette volte intorno a Gerico. i cui muri caddero prima dell'ottavo giro (Giosuè, e. VI, 16).
Per segnalare la violenza del combattimento che precede questa nostra congiunzione, i Saggi hanno simbolizzato le due nature con l'Aquila ed il Leone, di eguale forza, ma di costituzione contraria. Il leone impersona la forza terrestre e fissa, mentre l'aquila esprime la forza dell'aria e volatile. Messi uno davanti all'altro, i due campioni si attaccano, si respingono, si sbranano con decisione fino a quando, avendo l'aquila perso le ali ed il leone la testa, i due antagonisti formano un corpo solo di qualità intermedia e di sostanza omogenea, il Mercurio animato.
All'epoca ormai lontana, in cui, studiando la Scienza sublime ci chinavamo sul mistero, fitto di grandi enigmi, ci ricordiamo di aver visto costruire un bei palazzo la cui decorazione non mancò di sorprenderci, poiché trattava di quegli argomenti ermetici che tanto ci preoccupavano. Sopra il portone d'ingresso, due giovanotti, un ragazzo ed una ragazza, allacciati, allontanano e sollevano il velo che li copriva. I loro busti emergono da un mucchio di fiori, foglie e frutta. Sul coronamento d'angolo, domina un bassorilievo; mostra il combattimento simbolico dell'aquila e del leone, di cui abbiamo parlato, e si nota facilmente che l'architetto ebbe una certa pena per sistemare l'ingombrante emblema, imposto da una volontà intransigente e superiore* (* Questo palazzo, costruito in pietra squadrata ed alto sei piani, è situato nel XVII «arrondissement», all'angolo del boulevard Péreire e della rue de Monbel. Qualcosa di simile c'è anche a Tousson, vicino Malesherbes (Seine-et-Oise): è una vecchia casa del XVIII secolo, d'aspetto piuttosto importante, che reca sulla facciata, incisa con i caratteri dell'epoca, la seguente iscrizione, della quale rispettiamo la disposizione e l'ortografia:
Par un Laboureur
je suis construit
sans interes et d'un bon zelle,
il m'a nommé PIERRE BELLE.
1762.
(Da un Aratore / io fui costruita. / Non per interesse e con premuroso zelo / mi ha chiamato PIETRA BELLA. / 1762)
(L'Alchimia aveva anche il nome di Agricoltura celeste, ed i suoi Adepti si chiamavano Aratori).)…
Il nono motivo ci permette di approfondire ancora di più il segreto della fabbricazione del Solvente universale. Una donna, nel tondo, indica, — allegoricamente, — i materiali necessari alla costruzione del vaso ermetico; essa tiene alta una tavoletta di legno, che assomiglia un poco ad una doga di botte, la cui essenza ci è rivelata dal rametto di quercia scolpito sullo scudo. Ritroviamo qui la sorgente misteriosa, scolpita sul contrafforte del portico, ma il gesto del nostro personaggio tradisce la spiritualità di questa sostanza, di questo fuoco della natura senza il quale niente può vegetare né crescere quaggiù (tav. XIV). È questo spirito, diffuso sulla superficie del globo, che dev'essere captato dall'artista ingegnoso, man mano che procede nella materializzazione. Aggiungeremo ancora che c'è bisogno d'un corpo particolare che funge da ricettacolo, di una terra attraente nel quale esso possa trovare il principio suscettibile di riceverlo e di «corporificarlo». «La radice dei nostri corpi è nell'aria, dicono i Saggi, ed il loro capo è nella terra.» Quest'ultimo è quella calamita chiusa nel ventre di Ariete, che dev'essere colta nell'attimo della sua nascita, con accortezza e abilità.
«L'acqua di cui noi ci serviamo, scrive l'autore anonimo della Clef du Cabinet Hermétique, è un'acqua che racchiude in sé tutte le virtù del cielo e della terra; per questo essa è il Solvente generale di ogni Natura; essa apre le porte del nostro gabinetto ermetico e regale; in essa sono chiusi il nostro Re e la nostra Regina, e quindi, essa è il loro bagno... È la fontana del Trevisano, nella quale il Re si spoglia del proprio mantello di porpora per vestirsi d'un abito nero... È vero che è difficile procurarsi quest'acqua; per questo il Cosmopolita dice, nel suo Enigma, ch'essa era rara nell'isola... Quest'ultimo autore ce la segnala più particolarmente con queste parole: non assomiglia all'acqua delle nubi, ma ne possiede l'apparenza. In un altro passo ce la descrive con i nomi di acciaio e calamita, perche si tratta d'una vera e propria calamita che attira verso di sé tutte le influenze del cielo, del sole, della luna e degli astri, per comunicarle alla terra. Egli dice che questo acciaio si trova in Ariete, che segna l'inizio della Primavera, quando il sole entra nella costellazione dell'Ariete...
«Flamel ce la descrive, con una certa precisione, nelle Figure di Abraham l'Ebreo; egli ci illustra una vecchia quercia cava* (* Vedi p. 79), da cui sgorga una sorgente; con quest'acqua un giardiniere innaffia le piante ed i fiori di un'aiuola. La vecchia quercia, che è cava, indica la botte, fatta col legno di quercia, in essa bisogna far imputridire l'acqua destinata ad innaffiare le piante, quest'acqua è assai migliore dell'acqua fresca... Ora è questo il momento per scoprire uno dei grandi segreti di quest'Arte, che i Filosofi hanno tenuto nascosto, senza questo vaso non potrete raggiungere la putrefazione e la purificazione dei nostri elementi, proprio come non si potrebbe fare il vino se non lo si sia lasciato fermentare nel tino. Poiché la botte è di legno di quercia, anche il vaso deve essere in legno di vecchia quercia, arrotondato all'intemo come una semisfera, e dai bordi, molto spessi, formanti un quadrato; in mancanza di questo basta un barile, coperto con un altro badie. Quasi tutti i Filosofi hanno parlato di questo vaso assolutamente necessario per questa operazione. Filalete lo descrive per mezzo della favola del Serpente Pitone che Cadmo trafìsse, da parte a parte, contro una quercia. C'è una figura nel libro delle Douze Clefs* (* Vedi la Douze Clefs de Philosophie del Frate Basilio Valentino. Parigi, Moët 1659, chiave 12. Ristampa a cura delle Editions de Minuit, 1956) che rappresenta quest'operazione ed il vaso nel quale essa viene fatta, da cui esce un gran fumo che indica la fermentazione e l’ebollizione di quest’acqua; questo fumo va verso una finestra da cui si vede il cielo, con su dipinto il sole e la luna, che indicano l’origine di quest’acqua e le virtù ch’essa contiene. È il nostro aceto mercuriale che discende dal cielo sulla terra e dalla terra sale al cielo».
Abbiamo riportato qui questo testo perhcé può essere utile, a condizione di saperlo leggere con prudenza e di capirlo con saggezza. Qui è ancora il caso di ripetere la massima cara agli Adepti: lo spirito vivifica, ma la lettera uccide.
Eccoci ora davanti ad un simbolo assai complesso, quello del Leone. Complesso perché non possiamo, davanti all’attuale nudità della pietra, accontentarci d’una sola spiegazione. I Saggi hanno attribuito al Leone diverse qualità, sia per esprimere l’aspetto delle sostanze sulle quali lavoravano, sia per indicare una qualità speciale e preponderante. Nell’emblema del Grifone (ottavo motivo), abbiamo visto che il Leone, re degli animali terrestri, rappresenta la parte fissa, basica d’un composto, fisità che, a contatto con la volatilità contraria, perdeva la parte migliore di sé, quella che ne caratterizzava laforma, cioè il linguaggio geroglifico, la testa. Questa volta dobbiamo studiare l’animale da solo, ed ignoriamo di quale colore era vestito. Generalmente, il Leone è il segno dell’oro, segno sia alchemico che naturale; tradue, cioè, le proprietà fisico-chimiche di questi corpi. Ma i testi danno lo stesso nome alla materia che, nella preparazione del solvente, accoglie in sé lo Spirito universale, il fuoco segreto. In ambedue i casi si tratta sempre dell’interpretazione della potenza, dell’incorruttibilità, della perfezione come del resto è assai ben indicato dal valoroso con la spada levata, dal cavaliere coperto dalle cotte di maglia che ci rappresenta il re del bestiario alchemico (tav. XV).
Il primo agente magnetico che serve a preparare il solvente, — alcuni lo hanno chiamato Alkaest, — si chiama Leone verde, non tan­to perché possiede una colorazione verde, ma perché non ha ancora acquisito i caratteri minerali che distinguono chimicamente lo stato adulto dallo stato nascente. È un frutto ancora verde ed acerbo, se paragonato al frutto rosso e maturo. È la giovinezza metallica, sulla quale non ha ancora agito l'Evoluzione, ma che contiene in sé il ger­me latente d'una energia reale, che più tardi sarà destinata a svilup­parsi. È lo stadio in cui sono l'arsenico ed il piombo in confronto al­l'argento ed all'oro. È l'imperfezione di oggi da cui deriverà la più grande perfezione futura; il rudimento del nostro Elisir. Alcuni Adep­ti, tra essi Basilio Valentino, lo hanno chiamato Vetriolo verde, per significare la sua natura calda, ardente e salina; altri, invece, Smeral­do dei Filosofi, Rugiada di maggio, Erba di Saturno, Pietra vegetale, ecc. «La nostra acqua, dice Mastro Atrnaud de Villeneuve, prende il nome delle foglie di tutti gli alberi, degli alberi stessi e di tutto ciò che ha un colore verde, per ingannare gli insensati.»
Quanto al Leone rosso, secondo i Filosofi, non è altro che la stes­sa materia, o Leone verde, portata mediante speciali procedimenti a questa tipica qualità che caratterizza l'oro ermetico o Leone rosso. Per questa ragione Basilio Valentino ci dà questo consiglio: «Sciogli e nutrisci il vero Leone col sangue del Leone verde, perché il sangue fisso del Leone rosso è ricavato dal sangue volatile di quello verde, perché ambedue posseggono la medesima natura.»
Tra tutte queste qual è la vera interpretazione? — Confessiamo di non poter rispondere a questa domanda. Il Leone simbolico era, senza alcun dubbio, dipinto o dorato. Qualche traccia di cinabro, di malachite o di metallo ci trarrebbe d'impaccio. Ma non resta più nul­la, nient'altro che il calcare eroso, grigiastro e consunto. Il leone di pietra conserva il suo segreto!
L'estrazione dello Zolfo rosso ed incombustibile è indicata dalla figura d'un mostro che ha il doppio aspetto di gallo e di volpe. È lo stesso simbolo di cui si servi Basilio Valentino nella terza delle sue Douze Clefs. Dice l'Adepto: «Questo superbo mantello insieme al Sole degli Astri, che segue lo zolfo celeste, conservato con cura per timore che vada a male, lo farà volare come un uccello, tanto quanto ce ne sarà bisogno, ed il gallo mangerà la volpe e poi annegherà e si soffocherà nell'acqua, poi riprendendo vita mediante il fuoco sarà divorato dalla volpe (in modo che ciascuno giochi la sua parte.» (tav. XVI).
Alla volpe-gallo succede il Toro (tav. XVII).
Considerato come segno zodiacale, è il secondo mese delle operazioni preparatorie della prima opera e il primo regime di fuoco elementare della seconda. Considerati dal punto di vista della pratica alchemica, il toro ed il bue erano consacrati al sole, proprio come la vacca lo è alla luna, e raffigurano lo Zolfo, principio maschile, dato che il sole è chiamato metaforicamente da Ermes, Padre della pietra. Quindi, il toro e la vacca, il sole e la luna, lo zolfo ed il mercurio sono dei geroglifici d'identico significato ma indicano le nature primitive contrarie, prima della loro congiunzione, nature che l'Arte sa estrarre dai miscugli imperfetti.


V

Soffermeremo la nostra attenzione su dieci dei dodici medaglio­ni che ornano la fascia inferiore del basamento; infatti due motivi hanno subito delle mutilazioni troppo profonde perché si possa rico­struirne il senso. Quindi, a malincuore, andremo oltre, senza fermar­ci davanti ai resti informi del quinto medaglione (lato sinistro) e del­l'undicesimo (lato destro).
Vicino al contrafforte che separa il portico centrale dal por­tale nord, ci si presenta per primo un motivo raffigurante un cavalie­re disarcionato che si aggrappa alla criniera d'un focoso cavallo (tav. XVIII). Quest'allegoria si riferisce all'estrazione delle parti fisse, cen­trali e pure, mediante quelle volatili o eteree con la Soluzione filosofica. Si tratta più propriamente della rettificazione dello spirito otte­nuto e della distillazione ripetuta di questo spirito sulla materia pe­sante. Il cavallo, simbolo di rapidità e leggerezza, indica la sostanza spirituale; il suo cavaliere indica la pesantezza del corpo metallico grezzo. Ad ogni distillazione, il cavallo disarciona il suo cavaliere, il volatile abbandona il fisso; ma lo scudiero riassume nuovamente il comando, e così fin quando l'animale estenuato, vinto e sottomesso; acconsente a portare quel fardello ostinato e non può più liberarse­ne. L'assorbimento del fisso da parte del volatile avviene lentamente e a fatica. Per riuscirvi bisogna avere molta pazienza e perseveranza e ripetere spesso l'affusione dell'acqua sulla terra, dello spirito sul corpo. Soltanto con questa tecnica. — per la verità lunga e fastidiosa, — si riesce ad estranre il sale nascosto del Leone rosso con l'aiuto del­lo spirito del Leone verde. Il corsiero di Notre-Dame è simile al Pe­gaso alato della favola (radice parola greca, sorgente). Come l'altro, getta a terra i suoi cavalieri, che si chiamano Perseo e Bellerofonte. È ancora lui che trasporta Perseo, attraverso il cielo, nel regno delle Esperidi, e fa sgorgare, con un colpo di zoccolo, la fontana Ippocrene, sul mon­te Elicona, fontana che, si racconta, fu poi scoperta da Cadmo.
Nel secondo medaglione, l'Iniziatore ci presenta con una mano uno specchio, mentre con l'altra alza il corno di Amaltea; al suo fian­co c'è l'Albero della Vita (tav. XIX). Lo specchio simboleggia l'inizio dell'opera, l'Albero della Vita ne indica la fine e il corno dell'abbon­danza si riferisce al risultato.
Alchemicamente, la materia prima, quella che l'artista deve prescegliere per iniziare l'Opera, è chiamata Specchio dell'Arte. Moras de Respour* (* De Respour, Rares Experiences sur l'Esprit minéral. Parigi, Langlois et Bar-bin, 1668.) ci dice: «Comunemente tra Filosofi essa è indicata col nome di Specchio dell'Arte, perché è soprattutto per mezzo suo che si è conosciuta la composizione dei metalli nelle vene della terra... Così si dice che soltanto l'indicazione proveniente dalla natura ci può istruire.» È cosi che insegna anche il Cosmopolita* (* Nouvelie Lumière chymique. Traile du Soufre. Parigi, d'Houry, 1649, p. 78.), quando par­la dello Zolfo: «Nel suo regno c'è uno specchio nel quale si può vedere tutto il mondo. Chiunque guardi in questo specchio può vede­re ed imparare le tre parti della Sapienza di tutto questo mondo, ed in questo modo diventerà assai sapiente in questi tre regni, come lo sono stati Aristotele, Avicenna e molti altri; i quali, come i loro pre­decessori, hanno potuto vedere in questo specchio in che modo è sta­to creato il mondo.» Basilio Valentino, nel suo Testamentum, scrive: «L'intero corpo del Vetriolo deve essere considerato proprio come uno Specchio della Scienza filosofica... È uno Specchio nel quale si vede brillare ed apparire il nostro Mercurio, nostri Sole e Luna, e per mezzo suo in un attimo si può mostrare e provare all'incredulo Tommaso la cecità della sua crassa ignoranza.» Perneiy nel suo Dictionnaire Mytho-Hermétique non ha citato mai questo termine, sia che non lo abbia conosciuto, sia che l'abbia omesso volontariamente. Questo soggetto. così volgare e così disorezzato. diventa in seguito l'Albero della Vita, Elisir o Pietra filosofale, capolavoro della natura aiutata dalla capacità umana, puro e ricco gioiello alchemico. Sin­tesi metallica assoluta, essa assicura al fortunato possessore di que­sto tesoro il triplo appannaggio del sapere, della ricchezza e della salute. È il corno dell'abbondanza, sorgente inestinguibile delle feli­cità materiali del nostro mondo terreno. Ricordiamo infine che lo specchio è l’attributo della Verità, della Prudenza e della Scienza pres­so tutti i poeti e mitologi greci.
Ecco ora l'allegoria del peso di natura: l'alchimista leva il velo che copriva la bilancia (tav. XX).
Nessun Filosofo è stato prolisso circa il segreto dei pesi. Basilio Valentino s'è accontentato di dire che bisognava « dare un cigno bian­co al doppio uomo igneo » che corrisponderebbe a ciò che si può ve­dere nel Sigillum Sapìentum di Huginus a Barma, in cui l'artista tiene una bilancia di cui un piatto trascina l'altro secondo il rapporto di due a uno. Il Cosmopolita, nel suo Trattato sul Sale, è ancora meno preciso: «Il peso dell'acqua, egli dice, dev'essere plurale, e quello della terra in lamelle bianche o rosse dev'essere singolare.» L'autore degli Aphorismes Basiliens, o Canons Hermétiques de l'Esprit et de l'Ame* (*Stampati in fondo alle Oeuvres tant Medicinales que Chymiques, del R.P. de Castaigne. Parigi, de la Nove, 1681.), scrive nel canone XVI: «Noi iniziamo la nostra opera erme­tica con la congiunzione di tre principii preparati con una certa pro­porzione, essa si basa sul peso del corpo, che deve eguagliare lo spi­rito e l'animo quasi per metà.» Se ne hanno parlato anche Raimondo Lullo e Filalete, molti hanno preferito tacere; alcuni pretendono che solo la natura attribuiva le qualità secondo un'armonia misteriosa ignorata dall'Arte. Ma queste contraddizioni non resistono ad un esa­me approfondito. Infatti, sappiamo che il mercurio filosofico deriva da una determinata quantità di mercurio che ha assorbito una certa parte di zolfo; quindi è indispensabile conoscere esattamente le reci­proche proporzioni dei componenti, se si segue la via antica. Non ab­biamo certo bisogno di ricordare che queste proporzioni sono avvol­te da similitudini e coperte d'oscurità, anche negli scritti degli auto­ri più sinceri. Ma si deve notare, d'altra parte, che è possibile sosti­tuire l'oro volgare allo zolfo metallico; in questo caso, l'eccesso di solvente può sempre essere separato mediante distillazione, ed il peso si trova ridotto ad un semplice apprezzamento della consistenza. È chiaro che la bilancia costituisce un indizio prezioso per la determi­nazione della via antica, dalla quale sembra che si debba escludere l'oro. Ci vogliamo riferire all'oro volgare che non ha subito né la volatilizzazione né la trasfusione, operazioni che, modificando le sue proprietà ed i suoi caratteri fisici, lo rendono adatto al lavoro del­l'alchimista.
Una soluzione particolare e poco usata ci è dettata da uno dei cartigli che noi stiamo studiando. È quello dell'argento vivo volgare, per ricavare i] mercurio comune dei Filosofi, che essi chiamano il «nostro» mercurio, per distinguerlo dal metallo fluido dal quale pro­viene. Sebbene si possano incontrare frequentemente delle descrizio­ni abbastanza estese su quest'argomento, non nasconderemo che una tale operazione ci sembra azzardata, se non addirittura sofistica. Se­condo il punto di vista degli autori che ne hanno parlato, il mercurio volgare, purificato da ogni impurità e perfettamente volatilizzato, assumerebbe una qualità ignea che normalmente non ha, e sarebbe capace di diventare, a sua volta, solvente. Una regina, seduta in tro­no, fa cadere con un calcio un valletto che, con una coppa in mano, viene ad offrirle i suoi servigi (tav. XXI). Si deve quindi vedere in que­sta tecnica, supponendo ch'essa possa fornire l'atteso solvente, solo una modificazione della via antica, e non una pratica speciale, per­ché l'agente resta sempre lo stesso. Ora, noi non vediamo che vantag­gio si potrebbe ricavare da una soluzione di mercurio ottenuta per mezzo del solvente filosofico, dato che proprio quest'ultimo è l'agen­te principale e segreto per eccellenza. Eppure è quello che sostiene Sabine Stuart de Chevalier- (*Sabine de Chevalier, Discours philosophique sur le Trois Principes, o la Clej du Simctuaire philosophique. Paris, Quillau, 1781.). Quest'autrice scrive: «Per ottenere il mercurio filosofico, si deve dissolvere il mercurio volgare senza dimi­nuire in nulla il suo peso, perché tutta la sua sostanza dev'essere convertita in acqua filosofica. I Filosofi conoscono un fuoco naturale che penetra fino al cuore del mercurio e che lo spegne interiormente e conoscono anche un solvente che lo cambia in acqua argentina pura e naturale; essa non contiene e non deve contenere nessun corrosivo. Non appena il mercurio è sciolto dai suoi legami, ed è vinto dal co­lore, assume la forma d'acqua, e quest'acqua è la cosa più preziosa del mondo. Ci vuole assai poco tempo perché il mercurio volgare prenda questa forma.» Saremo certo scusati di non essere dello stesso parere, e di non credere, per delle buone ragioni, basate sull'espe­rienza, che il mercurio volgare, sprovvisto del proprio agente, possa diventare un'acqua utile per l'Opera. Il servus fugitivus di cui abbiamo bisogno è un'acqua minerale e metallica, solida, fragile, che ha l'aspet­to di pietra ed è molto facile da liquefarsi. Quest'accia coagulata in forma di massa pietrosa è l’Alkaest* (*Secondo Van Helmont si tratta d'un solvente capace di riportare alla loro vitalità primitiva tutti i corpi della natura N.d.T.) e Solvente Universale. Se è me­glio leggere i Filosofi, — secondo il consiglio di Filalete, — con un granello di sale, sarebbe meglio utilizzare tutta la saliera per lo stu­dio di Stuart de Chevalier.
Un vecchio intirizzito dal freddo, curvo sotto il tondo del me­daglione seguente, s'appoggia, stanco e debole, su di un blocco di pietra; una specie di manicotto avvolge la sua mano sinistra (tav. XXII).
È facile riconoscere in questa figura la prima fase della seconda Opera, quando il Rebis ermetico, chiuso nel centro dell'Athanor, su­bisce la sconnessione delle sue parti e procede verso la mortificazione. È l'inizio, attivo e dolce, del fuoco di ruota simbolizzato dal freddo e dall'inverno, periodo embrionale nel quale i semi, chiusi nel seno della terra filosofale, subiscono l'influenza fermentatrice dell'umidi­tà. Sta per cominciare il regno di Saturno, emblema della radicale dissoluzione, della decomposizione e del color nero. Basilio Valen­tino così lo fa parlare: «Io sono vecchio, debole e malato, perciò sono rinchiuso in una fossa... Il fuoco mi tormenta molto e la morte rompe le mie carni e le mie ossa.» Un certo Demetrio, viaggiatore citato da Plutarco, — i Greci hanno certo superato tutti quanti gli altri perfino nelle smargiassate, — racconta con la massima serietà che in una delle isole da lui visitate presso la costa inglese, si trovava Saturno prigioniero e sepolto in un profondo sonno. Il gigante Briareo (Egeo) è il guardiano della sua prigione. Ed ecco in che modo, por mezzo delle favole ermetiche, autori anche celebri, hanno scritto la Storia!
Il sesto medaglione non è altro che una ripetizione frammentaria del secondo. Ritroviamo l'Adepto, a mani giunte, nell'attitudine di preghiera, che sembra rendere grazie alla Natura, raffigurata sotto l'aspetto d'un busto femminile riflesso da uno specchio. Riconoscia­mo qui il geroglifico del soggetto dei Saggi, lo specchio nel quale «si vede apertamente tutta la natura» (tav. XXIII).
Alla destra del portico, il settimo medaglione ci mostra un vec­chio pronto a passare la soglia del Palazzo misterioso. Egli ha appena tolto il velo che nascondeva l'ingresso agli sguardi profani. È il pri­mo passo compiuto nella pratica, la scoperta dell'agente capace d'ope­rare la riduzione del corpo fisso, capace di compiere il reincrudimen­to, secondo il termine tramandatoci, in una forma analoga a quella della sua sostanza primitiva (tav. XXIV). Gli alchimisti alludono a quest'operazione quando parlano di rianimare le corporificazioni, cioè di rendere viventi i metalli morti. Bisogna saper aprire la prima porta di Ripley e di Basilio Valentino, è la Porta del Palazzo chiuso del Re di Filalete. Il vecchio altri non è se non il nostro Mercurio, agente segreto di cui numerosi bassorilievi ci hanno rivelato la natu­ra, il modo d'agire, i materiali ed il tempo di preparazione. Quanto al Palazzo, rappresenta l'oro vivo o filosofico, oro vile, disprezzato dagli ignoranti, e nascosto sotto i cenci che lo celano agli sguardi, sebbene sia tanto prezioso per chi ne conosce il valore. Dobbiamo vedere in questo motivo una variante dell'allegoria dei Leoni verde e rosso, del solvente e del corpo da sciogliere. Infatti, il vecchio, iden­tificato dai testi con Saturno, — che, si dice, divora i suoi figli, — era, una volta, dipinto in verde, mentre l'interno visibile del Palazzo mostrava una tinta di porpora. Diremo più in là a quale testo ci si può riferire per stabilire, grazie ai colori originali, il significato di tutte queste figure. Si deve anche notare che il geroglifico di Saturno, considerato solvente, è molto antico. Su di un sarcofago del Louvre, che aveva contenuto la mummia d'un prete di nome Poeris, scriba d'un tempio di Tebe, si può osservare sul lato sinistro il dio Sou, che sostiene il cielo con l'aiuto del dio Knubis (anima del mondo), mentre ai loro piedi giace il dio Ser (Saturno) sdraiato, dalle membra di colo­re verde.
Il tondo seguente ci permette d'assistere all'incontro tra il vec­chio ed il re incoronato, del solvente e del corpo, del principio vola­tile e del sale metallico fisso, incombustibile e puro. L'allegoria si avvicina molto al testo fatto di parabole di Bernardo Trevisano, nel­le quali «il prete vecchio e di età avanzata» si mostra così bene edotto sulle proprietà della fontana occulta, sulla sua azione sul «re del paese» ch'essa ama, attira e sommerge. In questo procedimento, e quando si rianima il mercurio, l'oro o re è sciolto poco per volta e senza violenza; lo stesso non avviene nella seconda in cui, contraria­mente all'amalgama ordinario, il mercurio ermetico sembra attaccare il metallo con una forza caratteristica che rassomiglia abbastanza alle effervescenze chimiche. A questo proposito i Saggi hanno detto che durante la Congiunzione si alzavano delle violente tempeste, dei gran­di temporali, e che i flutti del loro mare offrivano lo spettacolo d'un «aspro combattimento». Alcuni hanno avvicinato questa reazione alla lotta ad oltranza tra animali diversi: aquila e leone (Nicolò Flamel); gallo e volpe (Basilio Valentino), ecc. Ma secondo noi, la de­scrizione migliore, — soprattutto la più iniziatica, — è quella lascia­taci dal grande filosofo Cyrano Bergerac sullo spaventoso duello che sotto i suoi occhi combatterono la Remora e la Salamandra. Altri an­cora, e sono i più numerosi, attinsero le loro immagini dalla genesi prima e tradizionale della Creazione, essi hanno descritto la forma­zione dell'amalgama filosofale paragonandolo a quello del caos terre­stre, nato dallo sconvolgimento e dalle reazioni del fuoco e dell'acqua, dell'aria e della terra.
Per la sua umanità e familiarità, lo stile di Notre-Dame, non è meno nobile né meno espressivo. Le due nature sono raffigurate da due bambini aggressivi e battaglieri che, venendo alle mani, non si risparmiano gli scapaccioni. Al culmine della lotta, uno di essi lascia cadere un vaso, e l'altro una pietra (tav. XXV). Non è assolutamente possibile descrivere con più chiarezza e semplicità l'azione dell'acqua pontica sulla rozza materia, e questo medaglione fa grande onore al maestro che l'ha concepito.
In questa serie di argomenti, con la quale termineremo la de­scrizione delle figure del grande portico, appare nettamente che l'idea direttrice ebbe come obbiettivo la concentrazione dei punti variabili della pratica della Soluzione. Infatti essa da stila è sufficiente per indicare la strada seguita. La prima via è caratterizzata dalla solu­zione dell'oro alchemico col Solvente Alkaest; la seconda è indicata dalla soluzione dell'oro volgare col nostro mercurio. Per mezzo di quest'ultima si realizza il mercurio animato.
Infine, una seconda soluzione, quella dello Zolfo, rosso o bian­co, con l'acqua filosofica, è l'oggetto del dodicesimo ed ultimo bassorilievo. Un guerriero lascia cadere la propria, spada e si ferma, inter­detto, davanti ad un albero ai piedi del quale si alza un ariete; l'al­bero ha tre enormi frutti in forma di palla, e tra i rami si vede emer­gere il profilo d'un uccello. Ritroviamo qui l'albero solare, descritto dal Cosmopolita nella Parabola del Traile de la Nature, albero dal qua­le si deve estrarre l'acqua. Quanto al guerriero, rappresenta l'artista che ha appena compiuto la fatica d'Ercole della nostra preparazione. L'ariete sta a testimoniare che ha scelto la stagione propizia e la so­stanza adatta; l'uccello precisa la natura volatile del composto « più celeste che terrestre». Ormai, non deve far altro che imitare Satur­no, il quale, dice il Cosmopolita, «attinse dieci parti di quest'acqua, prese subito il frutto dell'albero solare e lo mise in quest'acqua... Per­ché quest'acqua è l'Acqua della vita che ha la capacità di migliorare i frutti di quest'albero; di modo che, ormai, non ci sarà più bisogno di piantarne né di innestarne; perché essa potrà, col suo odore soltan­to, rendere della stessa sua natura tutti i rimanenti sei alberi . Per di più questa raffigurazione è una replica della famosa spedizione de­gli Argonauti, nella quale troviamo Giasone vicino all'ariete dal vello d'oro ed all'albero dai frutti preziosi del Giardino delle Esperidi.
Nel corso di questo studio abbiamo avuto l'occasione di deplo­rare sia i deterioramenti di stupidi iconoclasti, sia la completa spari­zione del rivestimento policromo posseduto, un tempo, dalla nostra cattedrale. Non ci resta più nessun documento bibliografico capace d'aiutare l'investigatore e di rimediare, anche solo in parte, all'oltrag­gio dei secoli. Eppure non è assolutamente necessario consultare vec­chie pergamene né sfogliare inutilmente le vecchie stampe: Notre-Dame stessa conserva i colori originali delle figure del gran portico.
Guillaume de Paris, del quale dobbiamo benedire la perspicacia, seppe prevedere il grave danno che il tempo avrebbe arrecato alla sua opera. Da maestro oculato, fece riprodurre minuziosamente i mo­tivi dei medaglioni sulla vetrata del rosone centrale. Così il vetro vie­ne a completare la pietra e, grazie all'aiuto della fragile materia, l'eso­terismo riconquista la sua primitiva purezza.
Si potrà, così, scoprire il significato dei punti dubbi dei bassorilievi. Per esempio, la vetrata, per l'allegoria della Distillazione ripe­tuta (primo medaglione), ci presenta, non un semplice cavaliere, ma un principe incoronato con una corona d'oro, vestito di bianco, con le calze rosse; dei due bambini che litigano, uno è verde, l'altro grigio-viola; la regina che getta a terra il Mercurio porta una corona bianca, una camicia verde ed un mantello porpora. Si sarà anche sorpresi nel­lo scoprire alcune immagini ormai sparite dalla facciata, come, per esempio, quell'artigiano, seduto davanti ad un tavolo rosso e che tira fuori da un sacco delle grandi monete d'oro, o questa donna, dal cor­setto verde, vestita con una blusa scarlatta che sta lisciando i suoi capelli davanti allo specchio; o quei Gemelli, dello zodiaco inferiore, di cui uno è rubino, e l'altro smeraldo, ecc...
Quale profondo argomento di meditazione ci offre l'ancestrale Idea ermetica con la sua armonia e la sua unità. Pietrificata sulla fac­ciata, vetrificata nell'enorme orbe del rosone, essa passa dal mutismo alla rivelazione, dalla gravita all'entusiasmo, dall'inerzia all'espres­sione viva. Consunta, rozza e fredda sotto la cruda luce dell'esterno, essa sorge dal cristallo in fasci colorati e penetra sotto le navate, vi­brante, calda, diafana e pura come la Verità medesima.
Lo spirito non può fare a meno d'essere scosso in presenza di quest'altra antitesi, ancora più paradossale: la fiaccola del pensiero alchemico che illumina il tempio del pensiero cristiano!

VI

Lasciamo il gran portico e andiamo al portale nord o della Ver­gine.
Guardate il sarcofago, accessorio d'un episodio della vita del Cri­sto; esso è posto al centro del timpano, sulla cornice mediana; note­rete sette cerchi: sono i simboli dei sette metalli planetari (tav. XXVI).
Le soleil*
(* II sole indica l'oro, l'argento vivo il Mercurio; / Ciò che Saturno è per il piombo. Venere lo è per il bronzo; / La Luna dell'argento, Giove dello stagno, / E Marte del ferro son la figura N.d.T.) marque l'or, le vif argent le Mercure;
Ce qu'est Saturne au plomb, Vénus l'est a l'airain;
La Lune de l'argent, Jupiter de l'étain,
Et Mars du fer sont la figure* (*La Cabale Intellective. Mss. della Biblioteca dell'Arsenal, S. e A. 72, p. 15.).
Il cerchio centrale è decorato in modo particolare, mentre gli altri si ripetono a due a due, — cosa che non accade mai nei motivi puramente decorativi dell'arte ogivale. Ed anzi, questa simmetria va dal centro verso l'estremità, come c'insegna il Cosmopolita: «Guar­da il cielo e le sfere dei pianeti; vedi come Saturno è il più in alto di tutti, a lui succede Giove, e poi Marte, il Sole, Venere, Mercurio ed infine la Luna. Ora considera che le virtù dei pianeti non salgono ma scendono; anche l'esperienza c'insegna che Marte si converte facilmente in Venere, e non Venere in Marte, perché essa è più in bassodi una sfera. Così Giove si tramuta facilmente in Mercurio, perché Giove è più in alto di Mercurio, il primo è il secondo dopo il firmamento, l'altro è il secondo sopra la terra; e Saturno è quello più in alto e la Luna quella più in basso; il Sole si mescola con tutti ma non è mai migliorato dagli inferiori. Noterai che c'è una grande corrispondenza fra Saturno e la Luna, in mezzo ad essi, infatti, c'è il Sole, lo stesso accade per Mercurio e Giove, Marte e Venere, che hanno tutti il Sole posto nel mezzo, tra di loro.»
La concordanza di mutazione dei pianeti metallici tra di loro è quindi indicata, sul portico di Notre-Dame, nel modo più chiaro. Il motivo centrale simbolizza il Sole; le rose dell'estremità indicano Saturno e la Luna; poi vengono rispettivamente Giove e Mercurio, ed infine, da una. parte e dall'altra del Sole, Marte e Venere.
Ma c'è di meglio. Se analizziamo quella linea bizzarra che sembra congiungere la circonferenza delle rose, noteremo che è formata dalla successione di quattro croci e di tre volute a spirale, di queste tre una è a spirale semplice e le altre due a spirale doppia. Notate, poi, che se si trattasse solo di voler ornare il sarcofago, ci vorrebbero sei od otto di questi motivi aggiuntivi, per mantenere una simmetria perfetta; ma non è cosi, perché uno spazio, quello di sinistra, rimane vuoto; cosa, questa, che prova definitivamente che il senso simbolico è voluto.
 Le quattro croci, proprio come nella simbologia spagirica, rappresentano i metalli imperfetti; le volute a spirale doppie i metalli perfetti, e la voluta semplice il mercurio, semi-metallo o semi-perfetto.
Ma se, lasciando il timpano, abbassiamo lo sguardo verso la parte sinistra del basamento, che è ripartito in cinque nicchie, noteremo entro l'estradosso di ogni arcata delle strane figurine.
Andando dall'esterno verso destra, ecco il cane e le due colombe (tav. XXVII) che troviamo descritte nell'animazione del mercurio volatile; questo è il cane di Corascene, di cui parlano Artephius e Filalete, che bisogna riuscire a separare dal compost allo stato di polvere nera; e quelle sono le Colombe di Diana, altro enigma disperante, nel quale sono nascoste la spiritualizzazione e la sublimazione del mercurio filosofale. Troviamo poi l'agnello, simbolo dell'edulcorazione del principio arsenicale della Materia; l'uomo voltato, il quale rappresenta, meglio che sia possibile, l'apoftegma alchemico solve et coagula, che insegna a realizzare la conversione elementare volatilizzando il fisso e fissando il volatile (tav. XXVIII):
Si le fixe tu sçays dissouldre,
Et le dissoult faire voller,
Puis le vollant fixer en pouldre,
Tu as de quoy te consoler*'.
(*Se sai dissolvere il fisso, / e far volare il volatile, / e poi fissare in polvere il volatile, / ti puoi rallegrare N.d.T.).
In questa parte del portico si trovava scolpito, una volta, il gero­glifico maggiore della nostra pratica: il Corvo.
Il corvo di Notre-Dame, figura principale del blasone ermetico, aveva esercitato, in ogni epoca, un'attrazione assai viva sulla folla dei soffiatori; infatti una vecchia leggenda lo indicava come l'unico punto di riferimento d'un sacro deposito. Si racconta che Guillaume de Paris, «il quale, dice Victor Hugo, è stato senz'altro dannato per aver posto un frontespizio così infernale sul santo poema cantato per l'eternità dal resto dell'edificio», avrebbe nascosto la pietra filosofale in uno dei pilastri dell'immensa navata. Ed il punto esatto del misterioso nascon­diglio era determinato con precisione dall'angolo visuale del corvo...
Quindi, secondo la leggenda, l'uccello simbolico, un tempo, fis­sava, dall'esterno, il posto, incognito a tutti, del sacro pilastro nel qua­le sarebbe stato murato il tesoro.
Sul lato esterno dei pilastri senza imposta, che sostengono l'ar­chitrave e lo sviluppo della volta, sono rappresentati i segni dello zo­diaco. S'incontrano per primi, dal basso verso l'alto, Aries, poi Taurus e, al di sopra, Gemini. Sono i mesi primaverili che indicano l'inizio del lavoro ed il tempo propizio per le varie operazioni.
Ci si potrà obbiettare che lo zodiaco può non avere un significato occulto e rappresentare unicamente la zona delle costellazioni. È possibile. Ma, in questo caso, dovremmo ritrovare l'ordine astronomico, la successione cosmica delle figure zodiacali che i nostri Antenati non hanno ignorato. Ora, a Gemini, succede Leo, che prende il posto di Cancer, respinto sul pilastro di fronte. Lo scultore* (*Imaigier nel testo (N.d.T.) ha voluto, quindi, indicare con quest'abile trasposizione, ia congiunzione del fermento filosofico. — o Leone, — con l'amalgama mercuriale, unione che si deve compiere verso la fine del quarto mese della prima Opera.
Sotto questo portico, si nota anche un piccolo rilievo quadran­golare veramente curioso. Sintetizza ed esprime la condensazione del­lo Spirito universale, il quale forma, non appena si è materializzato, il famoso Bagno degli astri, nel quale si devono bagnare il sole e la luna chimici, per cambiare natura e ringiovanire. In questo bassorilievo vediamo un bambino cadere da un crogiuolo grande come una giara, mantenuta verticale da un arcangelo in piedi, avvolto da nubi, con un'ala distesa e che sembra colpire l'innocente. Tutto il fondo della composizione è occupato da un cielo notturno e stellato (tav. XXIX). Riconosciamo in questo soggetto, l'allegoria molto sem­plificata, cara a Nicolò Flamel, del Massacro degli Innocenti, che tra breve vedremo su di una vetrata della Sainte-Chapelle.
Senza entrare in dettagli circa la tecnica da seguire nelle varie operazioni, — cosa che nessun Autore ha osato fare, — diremo, però, che lo Spinto universale, corporificato nei minerali con il nome alchemico di Zolfo, costituisce il principio e l'agente efficace di ogni tin­tura metallica. Ma questo Spirito, questo rosso sangue dei fanciulli, può essere ottenuto solo scomponendo ciò che la natura aveva prima composto in essi. Quindi è necessario che il corpo perisca, che sia crocifisso e che muoia se se ne vuole estrarre l'anima, la vita metal­lica e la Rugiada celeste, ch'esso teneva rinchiusa. E questa quin­tessenza, travasata in un corpo puro, fisso, perfettamente digerito, farà nascere una nuova creatura, assai più splendente dei corpi da cui deriva. I corpi non hanno alcuna possibilità d'agire gli uni sugli altri; solo lo spirito è attivo ed agente.
Per questa ragione, i Saggi, sapendo che il sangue minerale di cui avevano bisogno per animare il corpo fisso ed inerte dell'oro non era altro che una condensazione dello Spirito universale, anima di tutte le cose: sapendo che questa condensazione, sotto la forma umida, capace di penetrare e rendere vegetative le misture sublunari, avve­niva soltanto di notte, col favore delle tenebre, del cielo puro e del­l'aria calma; sapendo, infine, che la stagione in cui essa si manifestava più attivamente e più abbondantemente corrispondeva alla primavera celeste, i Saggi, per tutte queste ragioni, le diedero il nome di Rugiada di Maggio. Perciò Thomas Corneille* (*Dìctionnaire des Arts e des Sciences, art. Rose-Croix. Parigi, Coignard, 1731.) non ci sorprende quando dichiara che i grandi maestri della Rosa-Croce erano de la Rosée-Cuite* (*Fratelli della Rugiada-Cotta. Anche qui c'è l'accostamento cabalistico tra Rose (rosa) e Rosee (rugiada) N.d.T.), e questo era il significato ch'essi davano alle ini­ziali del loro ordine: F.R.C.
Vorremmo poter dire di più su quest'argomento d'estrema im­portanza e mostrare come la Rosee de Mai* (*Rugiada di Maggio (N.d.T.) (Maia era la madre di Ermes), — umidità vivificante del mese di Maria, la Vergine madre. — si estragga facilmente da un corpo particolare, abietto e disprezzato, del quale abbiamo già descritto le caratteristiche, se non esistessero dei limiti invalicabili... Abbiamo raggiunto il più alto segreto del­l'Opera e desideriamo mantenere il nostro giuramento. È questo il Verbum dimissum del Trevisano, la Parola perduta dei frammassoni medioevali, quella che tutte le Confraternite ermetiche speravano di trovare, e la cui ricerca costituiva lo scopo dei loro lavori e la ragio­ne d'essere della loro esistenza* (*Tra i più celebri centri d'iniziazione di questo tipo citeremo gli ordini degli Illuminati, dei Cavalieri dell'Aquila nera, delle Due Aquile, dell’Apocalisse; i Fra­telli Iniziali dell'Asia, della Palestina, dello Zodiaco; le Società dei Fratelli neri, degli Eletti Coëns, dei Mopsi, delle Sette-Spade, degli Invisibili, dei Principi della Morte; e poi i Cavalieri del Cigno, istituiti da Elia, i Cavalieri del Cane e del Gallo, i Cavalieri della Tavola rotonda, della Genetta, del Cardo, del Bagno, della Bestia morta, dell'Amaranto, ecc...).
Post tenebras lux. Non dimentichiamolo. La luce nasce dal­le tenebre; essa è diffusa nell'oscurità, nel buio, come il giorno lo è nella notte. È dal Caos oscuro che fu estratta la luce riunendo i suoi raggi dispersi, e se, nel giorno della Creazione, lo Spirito divino si muoveva sulle acque degli Abissi, — Spiritus Domini ferebatur super aquas, — questo spirito invisibile, dapprima non poteva essere distinto dalla massa acquea e si confondeva con essa.
Infine ricordatevi che Dio impiegò sei giorni per compiere la sua Grande Opera, che la luce fu separata il primo giorno e che i giorni seguenti furono determinati, come i nostri, da intervalli regolari ed alternati d'oscurità e di luce:
A minuit, une Vierge mère
Produit cet astre lumineux:
En ce moment miraculeux
Nous appelons Dieu notre frère.*
(* A mezzanotte, una Verginemadre, / produce quest’astro luminoso; / in questo attimo miracoloso / noi chiamiamo Dio nostro fratello N.d.T.)

Dal punto di vista ermetico, l'emblema di cui ci stiamo occupando ne è una prova. Un'altra prova la troviamo nell'Enciclopedia del XVIII secolo, nella quale si asserisce che la Grande Opera può essere com­piuta mediante due vie, una chiamata via umida, più lunga ma tenuta in alta considerazione, ed un'altra, via secca, molto meno apprezzata. In quest'ultima bisogna «cuocere il Sale celeste, cioè il mercurio dei Filosofi, con un corpo metallico terrestre, in un crogiuolo, a diretto contatto col fuoco, per quattro giorni».
Nella seconda parte d'un'opera attribuita a Basilic Valentino* (*Azoth o oyen de jaire l'Or caché des Philosophes. Parigi, Pierre Moèt, 1659, p. 140.), ma che sarebbe piuttosto opera di Senior Zadith, l'autore sembra che si riferisca alla via secca quando scrive che, «per giungere a quest'Arte, non c'è bisogno di gran lavoro e di fatica, la spesa è poca e gli stru­menti di poco valore. Perché quest'Arte può essere imparata in meno di dodici ore, e portata alla perfezione in otto giorni, quando ha in sé il suo proprio principio».
Filalete, nel capitolo XIX dell'Introitus, dice, dopo aver parlato della via lunga, che asserisce essere noiosa e buona soltanto per le persone ricche: «Ma, con la nostra via, non ci vuole più d'una set­timana. Dio ha riservato questa via rara e facile per i poveri disprez­zati e per i suoi santi coperti d'abiezione.» Per di più, nelle sue Note su questo capitolo, Lenglet-Dufresnoy pensa che «questa via si com­pie con il doppio mercurio filosofico. In questo modo, egli aggiunge, l'Opera è compiuta in otto giorni, invece dei diciotto mesi, circa, della prima via».
Questa via più corta, ma nascosta da uno spesso velo, è stata chiamata dai Saggi Regime di Saturno, La cottura dell'Opera invece d'aver bisogno dell'uso d'un vaso di vetro, richiede solo che ci si serva d'un semplice crogiuolo. «Io sconnetterò il tuo corpo in un vaso di terra ed in esso ti seppellirò» scrive un autore celebre* (*Salomon Trismosin, La Toysan d'Or. Parigi, Sevestre Ed. 1612, pp. 72 e 110.), e più in là aggiunge: «Accendi un fuoco nel tuo vetro, cioè nella terra che lo tiene chiuso. Questo metodo rapido, che ti abbiamo liberalmente in­segnato, mi sembra la via più corta e la vera sublimazione filosofica per giungere alla perfezione di questa grande fatica.» In questo modo si potrebbe spiegare la massima fondamentale della Scienza: un solo vaso, una sola materia, un solo fornello.
Ciliani, nella Prefazione del suo libro* (*Ciliani, Hermès dévoilé. Parigi, F. Locquin, 1832.), riferisce i due procedimenti con queste parole :
«Io penso di dover avvertire qui che non si deve mai dimenticare che c'è bisogno soltanto di due materie della stessa origine, una volatile, l'altra fissa; che ci sono due vie, la via secca e la via umida. Io seguo quest'ultima, di preferenza, per dovere, sebbene la prima mi sia assai familiare: essa si compie con una materia unica.»
Anche Henri de Lintaut si fa testimone in favore della via secca : infatti scrive* (* H. de Lintaut, L'Aurore. Mss. Biblioteca dell'Arsenal, S.A.F. 169, n. 3020.): «Questo segreto supera tutti i segreti del mondo, perché voi potete in poco tempo senza grande cura ne lavoro, giun gere ad una grande proiezione, su quest'argomento leggete le opere di Isaac Hollandois, che ne parla più diffusamente.» Sfortunatamente il nostro autore non è più prolisso dei suoi confratelli. Henckel* (*F. Henckel, Traile de l'Appropriatìon. Parigi, Thomas Hérissant, 1760,p. 375, § 416.) scrive: «Quando penso che l'artista Elia, citato da Helvetius, pretende che la preparazione della pietra filosofale s'inizi e si finisca in quattro giorni, e che, in effetti, ha mostrato questa pietra ancora aderente ai cocci del crogiuolo, mi pare che non sarebbe poi cosi assurdo mettere in questione quello che dicono gli alchimisti, se quello ch'essi chiamano lunghi mesi non fosse di tanti giorni, ma fosse un periodo di tempo molto più limitato; e se esistesse un metodo nel quale tutta l'operazione consistesse solo nel tenere la materia al più alto grado di fluidità, cosa che si potrebbe ottenere con fuoco molto forte, mantenuto vivo dall'azione dei mantici; ma certo questo metodo non può essere eseguito in tutti i laboratori, e forse non sarebbe di pratica realizzazione per molte persone.»
L'emblema ermetico di Notre-Dame, che aveva già attirato l'attenzione del sagace Laborde* (*De Laborde, Explications de l'Enigme trouvée en un pilier de l'Eglise deNosire-Dame de Paris par le sieur D.L.. Parigi, 1636), nel XVII secolo, occupa lo spazio mediano del portale, dallo stilobate all'architrave ed è scolpito minuziosamente sui tre lati del pilastro del portale. Si tratta d'un'alta e nobile statua di san Marcello, con in capo la mitra; sopra il suo capo c'è un baldacchino con due torricelle, ma sprovvisto, secondo noi, di qualsiasi significato segreto. Il vescovo è in piedi su di un dado oblungo finemente scavato, ornato da quattro colonnine e da un meraviglioso drago in stile bizantino, il tutto è sostenuto da uno zoccolo bordato da un fregio e collegato al basamento da una modanatura a gola rovescia. Del resto solo il dado e lo zoccolo hanno un reale valore ermetico (tav. XXX).
Sfortunatamente questo pilastro, cosi magnificamente decorato, è quasi nuovo: solo dodici lustri ci separano dal suo rifacimento, perché è stato rifatto e... modificato.
Non è nostra intenzione discutere qui sull'opportunità o meno di queste riparazioni, e non pretendiamo assolutamente di sostenere che si debba lasciare che la lebbra del tempo invada uno splendido corpo, senza curare i guasti prodotti; però, nella nostra posizione di filosofo, non possiamo fare a meno di rammaricarci per la disinvoltura dimostrata dai restauratori nei riguardi delle creazioni gotiche. Se era meglio sostituire il vescovo annerito e rifare il basamento ormai in rovina, sarebbe stata cosa molto facile; bastava copiare il modello, trascriverlo fedelmente. Poco importava che contenesse o no un significato recondito: l'imitazione servile l'avrebbe conservato. Si è cercato di far ancora meglio, e, mentre ci si attenne fedelmente alla fisionomia del santo vescovo e al bel drago, si decorò invece lo zoccolo di fogliame e di svolazzi romani, al posto dei bisanti e dei fiori che si vedevano un tempo.
Questa seconda edizione, riveduta, corretta ed aumentata, è, senza dubbio, più ricca della precedente, ma il simbolo è stato troncato, la scienza mutilata, la chiave perduta, l'esoterismo spento. Il tempo corrode, consuma, disgrega, sbriciola il calcare; la chiarezza viene a mancare, ma il senso rimane. Sopraggiunge il restauratore, il guaritore delle pietre; con qualche colpo di scalpello amputa, gratta via, cancella, trasforma, modifica una rovina autentica in un brillante ma artificiale arcaismo, ferisce e cura, toglie e aggiunge, sfronda e contraffà in nome dell'Arte, della Forma o della Simmetria, senza preoccuparsi minimamente dell'idea creatrice. Grazie a questa moderna protesi, le nostre venerabili dame saranno sempre giovani!
Ahimè! manomettendo l'involucro si è fatta sfuggire l'anima.
Discepoli di Ermes, andate alla cattedrale per esaminare il posto e la disposizione del nuovo pilastro, e dopo seguite il cammino percorso dall'originale. Attraversate la Senna, entrate nel museo di Cluny ed avrete la soddisfazione di trovarlo vicino alla scala che porta all'accesso del frigidarium delle Terme di Giuliano. Qui è approdato questo bel frammento* (* L'itinerario, oggi, non è più valido; perché, da circa sei anni ormai, il pilastro simbolico, oggetto di tanta giustificata venerazione, è tornato a Notre-Dame, non lontano dal posto che fu suo per più di cinquecento anni. Infatti lo si potrà trovare in una stanza della torre nord, dall'alto soffitto a volta ad archi incrociati; questa torre sarà, presto o tardi, trasformata in museo ed è orientata in modo tale che la copia della statua in questione è a sud, sullo stesso livello e dalla parte opposta della piattaforma del grande organo.
Provvisoriamente, anche se il visitatore andrà fino al nuovo posto della scultura iniziatica, la curiosità non sarà soddisfatta tanto facilmente. Ahimè! lo aspetta una sorpresa, che lo rattristerà subito, si tratta dell'amputazione, estremamente spiacevole, di quasi tutto il corpo del drago, che adesso è ridotto alla sola parte anteriore ed alle due zampe.
La mostruosa bestia, con la grazia d'una grossa lucertola, stringeva l'athanor, lasciandovi dentro, nelle fiamme, il piccolo re dalla triplice corona, figlio della sua azione violenta sulla morta adultera. Si può vedere solo il viso del bambino minerale che sta subendo i «lavaggi ignei» di cui paria Nicolò Flamel. Esso è fasciato e legato, secondo il costume medioevale, e come si trova ancor oggi nella figurina di porcellana del piccolo «baigneur» (Bagnante ma nel linguaggio comune anche bambolotto N.d.T.) che è messo nella focaccia nel giorno della festa dell'Epifania. (Vedi: Alchimie, op. cit., p. 89).).
Questo enigma del lavoro alchemico, risolto in modo esatto, — almeno in parte, — da Francois Cambrici, gli valse la citazione di Champfleury nei suoi Excentriques, e quella di Tcherpakoff nei suoi Fous Littéraires. Avremo anche noi lo stesso onore?
Sullo zoccolo cubico, lato destro, noterete due bisanti in rilievo,
massici e circolari; sono le materie o nature metalliche, — soggetto e solvente, — con le quali si deve iniziare l'Opera. Sul prospetto principale, queste sostanze, modificate dalle operazioni preliminari, non sono più rappresentate sotto forma di dischi ma di rose a petali saldati. È bene ammirare senza riserve l'abilità mediante la quale l'artista ha saputo interpretare la trasformazione dei prodotti reconditi, liberati dagli accidenti esterni e dai materiali eterogenei che li avvolgevano nella miniera. Nel lato sinistro, i bisanti, divenuti ormai rose, hanno la forma di fiori decorativi a petali saldati, ma col calice apparente. Sebbene siano stati ben corrosi e quasi cancellati, è ancora facile ritrovare la traccia del disco centrale. Questi fiori rappresentano sempre gli stessi soggetti ma hanno acquisito altre qualità ancora; il grafismo del calice indica che le radici metalliche sono state aperte e sono disposte a manifestare il loro principio seminale. Questa è la traduzione esoterica dei piccoli motivi ornamentali dello zoccolo. Il dado ci fornirà la spiegazione complementare.

Le materie preparate, riunite in un solo amalgama devono subire la sublimazione o ultima purificazione ignea. In quest'operazione le parti combustibili si distruggono, le materie terrose perdono la loro coesione e si disgregano, mentre i principii puri, incombustibili, si elevano sotto una forma assai diversa da quella assunta dall'amalgama. Si tratta del Sale dei Filosofi, il Re coronato di gloria, che nasce nel fuoco e deve rallegrarsi nel successivo matrimonio, affinchè le cose occulte diventino manifeste, come dice Hermes. Rex ab igne veniet, ac conjugio gaudebit et occulta patebunt. Di questo re, il dado mostra solo la testa, emergente dalle fiamme purificatrici. Ma per come si presenta oggi il bassorilievo non si può essere certi che la fascia frontale scolpita nel capo del fanciullo rappresenti una corona; potrebbe benissimo trattarsi, a giudicare dalla forma e dal volume, d'una specie di casco o di cimiero. Ma, fortunatamente, possediamo il testo di Esprit Gobineau de Montluisant, il cui libro fu terminato «mercoledì 20 maggio 1640, vigilia della gloriosa Ascensione de Nostro Salvatore Gesù Cristo»* (* Explication très curieuse des Enigmes et Figures hiéroglyphiques, Physiques, qui sont au grand portali de l'Eglise Cathédrale et Méfropolitaine de Notre-Dame de Paris), e che chiaramente ci fa sapere che il re porta una triplice corona.
Dopo l'innalzarsi dei principii puri e colorati del composto filosofico, il residuo è pronto subito per fornire il sale mercuriale, volatile e fusibile, che è stato spesso chiamato dagli antichi autori : Drago babilonese.
L'artista creatore del mostro emblematico ha prodotto un vero capolavoro, che sebbene mutilato, — le penne di sinistra sono spezzate, — resta nondimeno un pezzo notevole d'arte statuaria. L'animale favoloso emerge dalle fiamme e la sua coda sembra uscire dall'essere umano del quale, in certo qual modo, avvinghia la testa. Poi con un movimento di torsione, che lo fa inarcare sull'arco, va a ghermire l'athanor con i suoi rostri potenti.
Se esaminiamo la decorazione del dado, noteremo delle scanalature raggruppate, poco scavate, dalla sommità curva e a base piana.Quelle della parete sinistra sono accompagnate da un fiore con i quattro petali separati, che rappresentano la materia universale, quaternaria tra gli elementi primi, secondo la dottrina d'Aristotele. Assai diffusa nel medioevo. Proprio al di sotto si trova il duo delle nature lavorato dall'alchimista, la cui ricomposizione fornisce il Saturno dei Saggi, denominazione che è l'anagramma di nature* (* In francese l'anagramma tra Saturno e nature è più evidente N.d.T.). Nell'intercolunnio di fronte si trovano quattro scanalature, che procedono in modo decrescente, secondo l'obliquità della rampa fiammeggiante, esse rappresentano il quaternario degli elementi secondi; infine da ogni lato dell'athanor, proprio sotto gli artigli del drago, le cinque unità della quintessenza, che comprendono i tre principii e le due nature, e poi il loro totale nel numero di dieci «nel quale tutto finisce e termina».
L.-P. François Cambrici* (* L.P. Francois Cambrici, Cours de Philosophie hermétique ou d'Alchimie en dix-neuf lefons. Parigi, Lacour et Maistrasse, 1843.) pretende che la moltiplicazione dello Zolfo, — bianco o rosso, — non è indicata nel geroglifico studiato; noi non oseremmo pronunciarci cosi categoricamente. La moltiplicazione, infatti, può essere realizzata soltanto grazie all'aiuto del mercurio, che nell'Opera ha il ruolo di paziente, mediante cotture o fissazioni successive. Dobbiamo, quindi, cercare nel dragone, immagine del mercurio, il simbolo rappresentativo della nutrizione e della progressione dello Zolfo o dell'Elisir. Se questo autore, avesse avuto più cura nell'esaminare i particolari decorativi, avrebbe certo notato:
1. Una banda longitudinale che parte dalla testa del drago e segue la linea delle vertebre fino all'estremità della coda;
2. Due bande analoghe, disposte obliquamente, una su ciascuna ala;
3. Due bande più larghe, trasversali, che cingono la coda del drago, la prima all'altezza delle penne, l'altra al di sopra della testa del re. Tutte queste bande sono ornate da cerchi pieni che si toccano in un punto della loro circonferenza.
Il loro significato ci sarà dato dai cerchi delle bande caudali: il centro di essi è nettamente indicato su ciascuno di essi. Gli ermetici sanno che il re dei metalli è raffigurato dal segno solare, cioè una circonferenza con o senza punto centrale. Ci sembra dunque che sia legittimo pensare che, se il drago è coperto a profusione dal simbolo aureo, — ne ha perfino sull'artiglio della zampa destra, — significa che è capace di trasmutare in quantità; ma questo potere può essere acquisito solo grazie ad una serie di ulteriori cotture, con lo Zolfo o Oro filosofico, che costituiscono le cosiddette moltiplicazioni.
Questo è il significato esoterico, che abbiamo creduto di riconoscere sul bei pilastro della porta di sant'Anna, e spiegato il più chiaramente possibile. Altri, più sapienti, daranno forse una interpretazione migliore, perché non pretendiamo d'imporre a nessuno la tesi qui sviluppata. Ci basterà dire, che, in generale, essa concorda con quella di Cambrici. Ma, in cambio, non condividiamo il parere di quest'autore, che ha voluto estendere, senza prove, il simbolismo del dado alla statua.
Certo è sempre penoso dover rimproverare un errore lampante, ed ancor più triste raccogliere alcune affermazioni per distruggerle in blocco. Eppure bisogna farlo, qualunque sia il nostro rammarico. La scienza che noi studiarne è altrettanto positiva, reale ed esatta quanto l'ottica, la geometria o la meccanica; i suoi risultati sono al- trettanto tangibili quanto quelli della chimica. Se entrano in una certa roporzione nel comportamento e l'orientamento delle nostre ricerche, dobbiamo però evitare le impennate, subordinandole alla logica, al ragionamento, e sottomettendole al criterio della esperienza. Ricordiamoci che sono le truffe di avidi soffiatori, le pratiche insensate dei ciarlatani, le sciocchezze di scrittori ignoranti e senza scrupolo che hanno gettato il discredito sulla scienza ermetica. Si deve vedere giustamente e parlare con precisione. Non una parola non ponderata, non un pensiero che non sia passato al vaglio del giudizio e della riflessione. L'Alchimia ha bisogno d'essere epurata; liberiamola dalle macchie di cui talvolta l'hanno insudiciata perfino i suoi partigiani: non potrà che diventare più robusta e più sana, senza per- dere niente del suo fascino ne della sua misteriosa attrazione.
 François Cambrici, nella trentatreesima pagina del suo libro scrive cosi: « Da questo mercurio, deriva la Vita rappresentata dal vescovo che è al di sopra del drago già citato... Questo vescovo porta un dito alla bocca, per dire a quelli che lo vedono e che hanno compreso ciò che egli rappresenta... tacete, non dite nulla!...»
 II testo è accompagnato da una tavola, riproduzione d'un disegno assai mal fatto, — e questo non è nulla, — ma chiaramente truccato, — e questo è ben più grave. San Marcello è raffigurato mentre tiene un pastorale corto come l'asta d'una banderuola d'un guardiano di passaggio a livello; con la testa coperta da una mitra decorata di croci, e, superbo anacronismo, l'allievo della Prudenza è barbuto! Particolare pungente: nel disegno di faccia, il drago ha il muso di profilo e rode il piede del povero vescovo, che, del resto, sembra curarsene assai poco. Infatti, calmo e sorridente si preoccupa di chiudere le labbra con l'indice nel gesto che comanda il silenzio.
La verifica è facile, perché possediamo l'opera originale e l'imbroglio salta immediatamente all'occhio. Il nostro santo è, secondo il costume medioevale, assolutamente glabro; la sua mitra, molto semplice, non mostra alcun ornamento, il pastorale tenuto dalla mano sinistra, è appoggiato, dalla parte inferiore, sul muso del drago. Quan- to al famoso gesto che imita quello dei personaggi del Mutus Liber e di Arpocrate, è nato solo dall'eccessiva fantasia di Cambrici. Infatti, san Marcello è rappresentato benedicente, in uno atteggiamento pieno di nobiltà, con la fronte inclinata, l'avambraccio piegato, la mano all'altezza della spalla, l'indice e il medio alzati.
È assai difficile credere che due osservatori abbiano potuto essere vittime della stessa illusione. Questa fantasia deriva dall'artista o fu imposta dal testo? La descrizione ed il disegno hanno una tale concordanza tra loro che ci si permetterà di non avere troppa fiducia nelle qualità d'osservazione descritte in quest'altro brano dello stesso autore:
«Passando un giorno davanti alla chiesa di Notre-Dame de Paris, ho esaminato con molta attenzione le belle sculture con cui sono decorate le tre porte e ho notato in una di queste tre porte un geroglifico assai bello, che non avevo mai osservato, e per parecchi giorni di seguito sono andato ad osservarlo per riuscire a descrivere dettagliatamente tutto ciò che esso rappresentava; alla fine ci riuscii. Leggendo ciò che segue il lettore se ne convincerà, e sarà meglio ancora se andrà lui stesso sul posto.»
Quest'affermazione non manca certo d'ardire e d'impudenza. Se il lettore di Cambrici segue l'invito non troverà, sul pilastro di mezzo del portale di sant'Anna, che il leggendario esoterismo di san Marcello. Vedrà il vescovo che uccide il drago toccandolo col suo pastorale, come riporta la tradizione. Se poi, in più, egli simboleggia la vita della materia, è un'opinione personale dell'autore, che è libero di esprimerla; ma che la statua impersonifichi il tacere di Zoroastro, non è vero e non lo fu mai.

 VIII


Costruite dai Frimasons* (* Dall'inglese free-mason (pietra libera e, per estensione, libero muratore) diventato in francese franc-maçon ed in italiano frammassone N.d.T.) per assicurare la trasmissione dei simboli della dottrina ermetica, le nostre grandi cattedrali ebbero, al loro apparire, una grande influenza su numerosi edifici più modesti dell'architettura civile o religiosa.
Flamel si compiaceva di rivestire d'emblemi e di geroglifici i numerosi edifìci che fece costruire qua e là. L'abate Villain ci informa che il piccolo portale della chiesa di Saint-Jacques-la-Boucherie, fatto costruire dall'adepto nel 1389, era coperto di figure. «Sullo stipite occidentale del portale, ci dice, si vede la statua di un piccolo angelo che tiene tra le mani un disco; Flamel aveva fatto intarsiare un dischetto di marmo nero con un filo di oro purissimo che formava una cro- ce* (*Abate Villain, Histoire critique de Nicolas Flamel. Parigi, Desprez, 1761.)...» I poveri dovevano alla sua generosità anche due case ch'egli fece costruire per loro in «rue du Cimetière-de-Saint-Nicolas-des- Champs», la prima nel 1407 e la seconda nel 1410. Questi edifici erano ornati, ci assicura Salmon, da «una gran quantità di figure incise nella pietra, con una N ed una F gotiche da ogni lato». La cappella dell'ospedale Saint-Gervais, ricostruita a sue spese, non era da meno delle altre fondazioni.» La facciata e il portale della nuova cappella, scrive Albert Poisson* (* Albert Poisson, Histoire dell'Alchimie. Nicolas Flamel. Parigi, Chacornac, 1893), erano coperti di figure e di leggende secondo il solito modo di Flamel.» Il portale di Sainte-Geneviève-des-Ardents, situato in rue de la Tixeranderie, conservò il suo interessante simbolismo fino alla metà del XVIII secolo; a quell'epoca la chiesa fu trasformata in abitazione e gli ornamenti della facciata furono distrutti. Flamel fece innalzare anche due archi decorativi nel cimitero degli Innocenti, uno nel 1389, l'altro nel 1407. Poisson c'informa che sul primo, tra le altre targhe geroglifiche, si notava uno scudetto che l'Adepto «sembra aver imitato da un altro attribuito a san Tommaso d'Aquino». Il celebre occultista aggiunge che lo stesso scudetto è raffigurato alla fine dell’Harmonie Chymique di Lagneau. Ed ecco, riportata qui, la descrizione ch'egli ci fornisce:
 « Lo scudetto è diviso in quattro parti da una croce, questa ha nel suo centro una corona di spine che racchiudono un cuore sanguinante da cui spunta una canna. In uno dei quarti si vede scritto IEVE in caratteri ebraici, in mezzo ad una miriade di raggi luminosi e sopra ad una nuvola nera; nel secondo quarto, c'è una corona; nel terzo, la terra coperta da un'abbondante messe; il quarto reca dei globi di fuoco.»
 Questa descrizione, conforme all'incisione di Lagneau, ci permette di concludere che costui ha fatto copiare la sua figura dall'arco del cimitero. E non è cosa impossibile, perché delle targhe originali ne restavano ancora tre al tempo di Gohorry, — cioè verso il 1572, mentre la Harmonie Chymique fu stampata da Claude Morel nel 1601. Però, sarebbe stato meglio rivolgersi allo scudetto tipo, assai diverso da quello di Flamel, molto meno oscuro. Esso esisteva ancora all'epoca della Rivoluzione in una vetrata che illuminava la cappella di san Tommaso d'Aquino, nel convento dei Giacobini. La chiesa dei Domenicani, — che vi abitarono e vi si erano stabiliti intorno al 1217, — fu fondata da Luigi IX. Essa era sita in rue Saint-Jacques e conosciuta col nome di Saint-Jacques le Majeur. Il libro Curiositez de Paris, apparso nel 1716 edito da Saugrain il vecchio, aggiunge che a fianco alla chiesa c'erano le scuole del Dottore angelico.
 Lo scudetto della vetrata, detto di san Tommaso d'Aquino, fucopiato con esattezza e dipinto nel 1787 da un ermetista chiamatoChaudet. Questo dipinto ci permette di descriverlo (tav. XXXI).
Lo scudo francese, inquartato, è collegato alla sommità ad un segmento circolare che lo domina. Su questo pezzo supplementare è raffigurato un matraccio d'oro capovolto, circondato da una corona di spine verdi su campitura color sabbia. La croce d'oro ha tre globi azzurri: sul braccio destro, sul sinistro e sulla parte bassa del braccio verticale; in più ha, al centro, un cuore rosso che porta un ramoscello verde. Su questo cuore cadono e si fissano alcune gocce d'argento che cadono dal matraccio. Al quarto in alto a destra, bipartito in oro, con tre stelle di porpora, e in azzurro, con sette raggi d'oro, è opposto, a sinistra in basso, un campo color sabbia dalle spighe d'oro su un fondo color tanè. Nel quarto in alto a sinistra, c'è una nube violetta su campitura argento, con tre frecce pure d'argento, pennate d'oro, che sfrecciano verso l'abisso. In basso a destra, tre serpenti d'argento su campitura verde.
Questo bell'emblema è tanto più importante per noi in quanto ci svela i segreti relativi all'estrazione del mercurio ed alla sua congiunzione con lo zolfo, punti oscuri della pratica, sui quali tutti gli antichi autori hanno preferito mantenere un religioso silenzio.
Anche la Sainte-Chapelle, capolavoro di Pierre de Montereau, meravigliosa urna di pietra, costruita, tra il 1245 ed il 1248, per ricevere le reliquie della Passione, possedeva un insieme di figure alchemiche assai notevole. Anche se ci dispiace vivamente che il portale originale sia stato restaurato, portale in cui i Parigini del 1830 potevano, insieme con Victor Hugo, ammirare «due angeli, di cui uno tiene una mano dentro un vaso mentre l'altro la tiene dentro una nube», abbiamo la gioia, ancor oggi e malgrado tutto, di possedere intatte le vetrate del lato sud dello splendido edificio. Sembra quasi impossibile trovare da qualche altra parte una collezione migliore, che si riferisca all'esoterismo alchemico, di quella della Sainte-Chapelle. Iniziare foglia dopo foglia, la descrizione d'una tale foresta di vetro, sarebbe un lavoro immenso capace di fornire materiale per parecchi volumi. Ci limiteremo dunque a mostrare un esempio tratto dalla quinta finestra, sotto la prima crociera, e che ha per argomento la Strage degli Innocenti, di cui più sopra abbiamo descritto il significato (tav. XXXII). Non raccomanderemo mai abbastanza, agli amanti della nostra vecchia scienza, ed ai curiosi delle cose occulte, lo studio delle vetrate simboliche della cappella alta; essi vi troveranno abbastanza soggetti da spigolare, ed altrettanti ne troveranno nel grande rosone, incomparabile creazione di colori e d'armonia.





AMIENS


 Come Parigi, anche Amiens ci offre una notevole raccolta di bassorilievi ermetici. Il fatto singolare, e che conviene notare, è che il portale centrale di Notre-Dame d'Amiens, — portale del Salvatore, — è la replica quasi fedele non solo dei motivi che decorano il portale di Parigi, ma anche dell'ordine di successione. Le differenze sono in piccoli particolari; a Parigi i personaggi tengono dei dischi, qui tengono degli scudi; l'emblema del mercurio è presentato, ad Amiens, da una donna, a Parigi da un uomo. Su ambedue gli edifici, gli stessi simboli, gli stessi attributi, movimenti e costumi simili. Nessun dubbio che l'opera ermetica di Guillaume le Parisien abbia esercitato una reale influenza sulla decorazione del gran portale d'Amiens.
 Insomma, il capolavoro piccardo, magnifico tra tutti, resta uno dei più puri documenti che il medioevo ci abbia lasciato. Del resto, la sua conservazione permise ai restauratori di rispettare la maggior parte dei motivi decorativi; e quindi, questo ammirevole tempio, dovuto al genio di Robert de Luzarches e di Thomas e Renault de Cormont, rimane ancor oggi nel suo originale splendore. Tra le allegorie proprie allo stile di Amiens citeremo in primo luogo l'ingegnosa interpretazione del fuoco di ruota. Il filosofo, seduto ed appoggiato con il gomito al ginocchio destro, sembra meditare o vegliare (tav. XXXIII).
 Questo quadrifoglio, secondo noi assai caratteristico, è stato, però, interpretato in tutt'altra maniera da alcuni autori. Jourdain e Du val, Ruskin (Thè Bible of Amiens), l'abate Roze e, dopo di loro, Georges Durand* (* G. Durand, Monographie de l'Eglise cathédrale d'Amiens Parigi, A Picard, 1901.) hanno trovato un significato riferendosi alla profezia d'Ezechiele, il quale, dice G. Durand, «vide quattro animali alati, come li vedrà, dopo, san Giovanni, e poi due ruote una dentro l'altra. E qui si è voluto raffigurare proprio la visione delle ruote. L'artista, ingegnosamente, prendendo alla lettera il testo, ha ridotto la visione alla sua più semplice espressione. Il profeta è seduto su di una roccia e sembra dormire appoggiato al ginocchio destro. Davanti a lui appa- iono due ruote di carro, e questo è tutto.»
 Quest'interpretazione contiene due errori. Il primo errore testimonia uno studio incompleto della tecnica tradizionale e delle formule che i latomi* (* Scalpellini N.d.T.) seguivano nell'esecuzione dei loro simboli. Il secondo, più grave, dimostra una certa mancanza di osservazione.
 Infatti, i nostri scultori d'immagini religiose seguivano la prassi di isolare, o, come minimo, di sottolineare gli attributi soprannaturali per mezzo d'un cordone di nubi. Ne abbiamo una prova evidente sulla facciata di tre contrafforti del portico; ma qui non c'è niente di simile. D'altra parte il nostro personaggio ha gli occhi aperti; quindi non è assolutamente addormentato ma sembra che stia vegliando mentre accanto a lui si sta effettuando la lenta azione del fuoco di ruota. Per di più, è universalmente risaputo che, in tutte le scene che raffigurano, in stile gotico, una apparizione, l'illuminato è rappresentato mentre guarda il fenomeno; il suo atteggiamento, la sua espressione dimostrano invariabilmente la sorpresa o l'estasi, l'ansietà o la beatitudine. Non è invece ciò che accade nel soggetto di cui ci stiamo occupando. Le due ruote sono, e non possono essere nient'altro, che un'immagine, di significato oscuro per il profano, messa a bella posta col proposito di velare una cosa ormai nota, sia dall'iniziato che dal nostro personaggio. E cosi noi lo possiamo vedere mentre è assolutamente distolto da una qualsiasi preoccupazione di ogni tipo. Egli veglia e sorveglia, paziente ma un po' stanco. Terminate le gravose fatiche d'Ercole, il suo lavoro si riduce al gioco da bambini di cui parlano i testi, cioè a sorvegliare il fuoco, cosa che anche una donna che sta filando può facilmente fare e farlo bene.
Quanto alla doppia immagine del geroglifico, dobbiamo interpretarla come il segno di due svolgimenti che devono agire successivamente sull'amalgama per assicurargli un primo grado di perfezione. A meno che non si preferisca vedervi l'interpretazione delle due nature nella conversione, anch'essa compiuta con una cottura delicata e regolare. Pernety adotta quest'ultima tesi.
Infatti, la cottura lineare e continua esige la doppia rotazione d'una stessa ruota, movimento impossibile a rendere nella pietra e che quindi giustifica la necessità di due ruote incastrate fino a formarne una sola. La prima ruota corrisponde alla fase umida dell'operazione, — chiamata eliquazione* (* Tale termine deriva da Elixir, quindi elixation significa fare l'elixir N.d.T.), — durante la quale il composto resta fuso, fin quando non si forma una leggera pellicola che aumentando pian piano di spessore, va fino in profondità. S'inizia allora il secondo periodo, caratterizzato dalla secchezza, — o assazione, — mediante un secondo giro di ruota; questo periodo si compie e si termina quando il contenuto dell'uovo calcinato appare granuloso o polverulento, sotto forma di piccoli cristalli, o di sabbia o di cenere.
L'anonimo commentatore d'un'opera classica* (* La Lumière sortant par soy-mesme des Ténèbres. Parigi, d'Houry, 1687, cap. III, p. 30), dice, a proposito di quest'operazione che è veramente il sigillo della Grande Opera, che «il filosofo fa cuocere, con un calore dolce e solare, ed in un unico vaso, un unico vapore che pian piano s'inspessisce.» Ma quale può essere la temperatura del fuoco esteriore, conveniente a questa cottura? Secondo gli autori moderni, all'inizio il calore non dovreb- be superare la temperatura del corpo umano. Albert Poisson parte da 50° con un aumento progressivo fino a circa 300° centigradi. Filalete, nelle sue Regole* (* Règles du Philalèthe polir se conduire dans l'Oeuvre hermétique, sta in Histoie de la Philosophie hermétique, di Lenglet-Dufresnoy. Parigi, Coustelier,) afferma che « si deve considerare come calore temperato quel grado di temperatura, che potrà essere uguale a quello del piombo (327°) o dello stagno fusi (232°) ed anche più alto, cioè tale che i vasi possano sopportarlo senza rompersi. Da qui si co mincerà ad aumentare il calore per giungere a quello conveniente al regno nel quale la natura vi ha lasciato.» Nella sua quindicesima regola, Filalete ritorna ancora su questo punto tanto importante; dopo aver fatto notare che l'artista deve operare su dei corpi minerali e non su sostanze organiche, cosi dice:
 «Bisogna che l'acqua del nostro lago giunga all'ebollizione con le ceneri dell'albero di Ermes; io vi esorto a far bollire giorno e notte senza sosta, di modo che la natura celeste possa salire e quella terrestre discendere, tra le attività del nostro mare tempestoso. Perché, ve lo assicuro, se non si fa bollire, non si può chiamare il nostro lavoro cottura ma soltanto digestione
Segnaleremo anche una piccola decorazione, posta accanto al fuoco di ruota e scolpita alla destra dello stesso portico e che G. Durand ritiene che sia una replica del settimo medaglione di Parigi. Ecco come egli ce lo presenta :
«I signori Jourdain e Duval avevano chiamato Incostanza il vizio opposto alla Perseveranza; ma ci sembra che la parola Aposta sia, proposta dall'abate Roze sia più adatta al soggetto rappresentato. Si tratta d'un personaggio dal capo scoperto, imberbe e con la tonsura, quindi chierico o monaco, che indossa un vestito, munito di cappuccio, lungo fino a mezza gamba; questo vestito non è diverso da quello indossato dal chierico del gruppo della Collera tranne che per la cintura con cui questo è cinto. Gettando accanto a sé le brache e le calzature, una specie di stivaletti, sembra che si stia allontanando da una bella piccola chiesa, che si vede sullo sfondo, dalle finestre lunghe e strette, dal campanile cilindrico e in aggetto (tav. XXXIV.» In una nota, Durand aggiunge: «Sul gran portale di Notre-Dame de Paris, l'Apostata lascia i suoi vestiti nella chiesa stessa; e sulla vetrata della stessa cattedrale, è raffigurato fuori dalla chiesa nell'atteggiamento di chi fugge. A Chartres è completamente spogliato e ha indosso solo una camicia. Ruskin nota che il pazzo infedele è sempre raffigurato a piedi nudi, nelle miniature del XII e XIII secolo.»
Da parte nostra non troviamo alcuna correlazione tra il soggetto di Parigi e quello d'Amiens. Mentre quello simboleggia l'inizio dell'Opera, questo, al contrario, ne indica la fine. La chiesa è piuttosto un athanor, ed il suo campanile, innalzato a dispetto delle più elementari regole d'architettura, è il forno segreto che contiene l'uovo filosofico. Questo forno ha delle aperture attraverso le quali l'artigiano osserva le fasi del lavoro. Inoltre è stato dimenticato un particolare importante e molto caratteristico: intendiamo cioè quell'arco del basamento che appare vuoto. Ora, è difficile ammettere che una chiesa possa essere costruita su volte apparenti tanto da sembrare che poggi su quattro piedi. Ed è tanto più azzardato scambiare per un vestito la cosa informe e floscia che l'artista indica col dito. Tutti questi motivi ci hanno indotto a pensare che il motivo di Amiens facesse parte del simbolismo ermetico e che rappresentasse la cottura e l'apparecchio ad hoc. L'alchimista che abbia tolto le calzature indica abbastanza bene fino a che punto si deve essere prudenti e quanto ci si deve preoccupare del silenzio in quest'operazione segreta. Il vestito leggero, poi, indossato dall'artigiano nel bassorilievo di Chartres, si giustifica col calore emanato dal forno. Infatti al quarto stadio di fuoco, seguendo la via secca, è necessario mantenere una temperatura vicina ai 1200°, temperatura necessaria anche nella proiezione. Anche i moderni operai dell'industria metallurgica sono vestiti allo stesso modo sommario del soffiatore di Chartres. Saremmo senz'altro felici di conoscere la ragione per cui gli apostati proverebbero il bisogno di spogliarsi mentre s'allontanano dalla chiesa. È proprio questa spiegazione che avremmo voluto ci fosse data, a sostegno e spiegazione della tesi proposta dagli autori già citati.
Abbiamo visto che anche a Notre-Dame de Paris l'athanor assume l'aspetto d'una torricella, innalzata su delle volte. È chiaro che non lo si poteva riprodurre, esotericamente, eguale a quello esistente in laboratorio. Ci si limitò, perciò, a dargli una forma architettonica, senza però abolire tutte le caratteristiche, quelle cioè capaci di svelare la sua vera destinazione. Si riconoscono le parti costituenti il forno alchemico: ceneriera, torre e calotta. Del resto quelli che hanno consultato le stampe antiche, — ed in particolare le tavole della Pyrotechnie, inserite da Jean Liébaut nel suo trattato* (* Vedi Jean Liébaut, Quatre Livres des Secrets de Médecine et de la Philosophie Chimique, Parigi, Jacques du Puys, 1579, pp. 17a e 19°.), — non si potranno sbagliare. I forni sono raffigurati simili a dei torrioni con i loro spalti, i loro merli, le loro feritoie. Alcuni insiemi di questi strumenti finiscono col prendere l'aspetto di edifici o di piccole fortezze dalle quali sporgono i colli degli alambicchi e delle storte.
 In un quadrifoglio incastrato nello stipite destro del gran portico, ritroviamo l'allegoria del gallo e della volpe, cara a Basilio Valentino. Il gallo è appollaiato su di un ramo di quercia e la volpe cerca di raggiungerlo (tav. XXXV). I profani vi vedono l'argomento di una favola popolare nel medioevo, che sarebbe, secondo Jourdain e Duval, l'antenata di quella del corvo e della volpe. «Ma, aggiunge G. Durand, non si vedono i cani, che sono il completamento della favola.» Questo particolare indicativo non sembra che abbia risvegliato l'attenzione degli autori sul significato occulto del simbolo. Eppure i nostri avi, traduttori esatti e meticolosi, non avrebbero certo trala- sciato di raffigurare questi altri protagonisti se si fosse trattato d'una scena nata da una favola.
Forse sarebbe utile qui ampliare il significato dell'immagine, favorendo cosi i figli della scienza, nostri fratelli, più di quanto non abbiamo fatto per lo stesso emblema scolpito nel portico di Parigi. Senza dubbio spiegheremo più in là la stretta correlazione che c'è tra il gallo e la quercia, relazione che ha la sua analogia nel legame familiare; perché il figlio è unito al proprio padre come il gallo lo è all'albero. Per il momento, diremo soltanto che il gallo e la volpe non sono altro che lo stesso geroglifico che abbraccia i due stati fisici distinti della stessa materia. Quello che appare per prima è il gallo, o parte volatile, quindi la parte vivente, attiva, piena di movimento, estratta dal soggetto, che ha per emblema la quercia. Si tratta della nostra famosa sorgente, la cui acqua scorre alla base dell'albero sacro, tanto venerato dai Druidi, questa sorgente è stata chiamata dagli antichi filosofi Mercurio, sebbene essa non abbia, esteriormente, niente in comune con il volgare argento vivo. Perché l'acqua di cui abbiamo bisogno è secca, non bagna le mani e sgorga dalla roccia sotto i colpi della verga di Aaron. Questo è il significato alchemico del gallo, emblema di Mercurio presso i pagani e della resurrezione presso i cristiani. Questo gallo, sebbene volatile, può diventare la Fenice. Ma, prima, deve assumere lo stato di fissità provvisoria, indicata dal simbolo della volpe, la nostra volpe ermetica. Prima d'iniziare la pratica, è importante sapere che il mercurio contiene in sé tutto ciò che è necessario alla lavorazione. «Sia benedetto l'Altissimo, esclama Geber, per aver creato questo Mercurio dotandolo d'una natura tale che a lei nulla resiste! Perché, senza d'esso gli alchimisti avrebbero un bell'affannarsi, tutto il loro lavoro diventerebbe inutile.» Ed è l'unica materia di cui abbiamo bisogno. Infatti, quest'acqua secca, sebbene interamente volatile, può, se si scopre il modo per farla rimanere più a lungo sul fuoco, diventare abbastanza fissa da resistere a quel grado di calore che, invece normalmente, sarebbe stato sufficiente a farla evaporare tutta. Essa, allora, cambia simbolo, e la sua qualità di pesante le fa assumere, per rappresentare la nuova natura, l'emblema della volpe. L'acqua è diventata terra e il mercurio zolfo. Però questa terra, malgrado il bei colore acquistato con il lungo contatto col fuoco, non servirebbe a niente se restasse nella sua forma secca; un vecchio assioma c'insegna che ogni tintura secca, nella sua siccità, è inutile; si deve quindi disciogliere questa terra o questo sale nella stessa acqua dalla quale è nato, o, ciò che è lo stesso, nel proprio sangue, perché diventi nuovamente volatile, cosicché la volpe riprenda la struttura, le ali e la coda del gallo. Con un'operazione simile alla precedente, l'amalgama verrà nuovamente coagulato, lotterà ancora contro la tirannia del fuoco, ma questa volta nella fusione e non più a causa della propria qualità secca. Cosi nascerà la prima pietra, ne completamente fissa ne completamente volatile epperò abbastanza resistente al fuoco, assai penetrante e facilmente fusibile, proprietà, queste, che dovrete aumentare per mezzo d'una terza ripetizione della stessa manipolazione. Allora il gallo, attributo di san Pietro, pietra vera e fluente sulla quale riposa l'edificio cristiano, il gallo, dunque, avrà cantato tre volte. Perché è proprio lui, il primo Apostolo, che de- tiene le due chiavi incrociate della soluzione e della coagulazione; è lui il simbolo della pietra volatile, resa fissa e densa dal fuoco, che la fa precipitare. San Pietro, nessuno l'ignora, fu crocifisso a testa in giù...
Segnaleremo ora due bassorilievi assai interessanti, posti tra le belle decorazioni del portale nord, o di Saint-Firmin, occupato quasi interamente dallo zodiaco e dalle corrispondenti scene campestri o familiari. Il primo bassorilievo rappresenta una cittadella, la cui porta, massiccia e sprangata, è fiancheggiata da torri merlate ira le quali si trovano due piani di costruzioni; il basamento è ornato da uno spiraglio munito di grata.
È forse il simbolo dell'esoterismo filosofico, sociale, morale e religioso che viene svelato e trattato negli altri centoquindici quadrifogli? O forse dovremmo vedere in questo soggetto del 1225, la visualiz- zazione dell'idea della Fortezza alchemica, idea ripresa e modificata da Khunrath nel 1609? Si tratta forse del Palazzo, misterioso e sbarrato, del re della nostra Arte, e del quale parlano Basilio Valentino e Filalete? Comunque stiano le cose, si tratti di una cittadella o d'una dimora regale, l'edifìcio, d'aspetto imponente e dissuasivo, da una reale impressione di forza e d'inespugnabilità. Costruito per conservare qualche tesoro o per raccogliere qualche importante segreto, ci appare cosi impenetrabile che solo possedendo la chiave delle poderose serrature, che lo preservano da ogni effrazione, si può pensare di entrarvi. Ha contemporaneamente l'aspetto di prigione e di caverna e dall'uscio promana qualche cosa di sinistro, di terribile che fa pensare all'ingresso del Tartaro:
Lasciate ogni speranza voi ch'entrate.
Il secondo geroglifico, posto immediatamente al di sotto del precedente, ci mostra degli alberi morti, dai rami nodosi, torti ed avviticchiati tra loro, sotto un firmamento consunto, ma in cui si possono ancora distinguere le immagini del sole, della luna, e di alcune stelle (tav. XXXVI).
Questo soggetto si riferisce alle materie prime della nostra Arte, pianeti metallici, di cui i Filosofi dicono che la morte è stata causata dal fuoco, e l'inerzia dalla fusione alla quale sono stati sottoposti, essi sono ormai privi di potere vegetativo, come lo sono gli alberi durante l'inverno.
Per questa ragione i Maestri ci hanno tante volte raccomandato di rincrudire i metalli, fornendo loro, con la forma fluida, l'agente specifico ch'essi hanno perduto nella riduzione metallurgica. Ma dove si può trovare questo agente? È il grande mistero che più volte abbiamo avvicinato nel corso di questa ricerca, accostandoci a lui qua e là secondo i vari emblemi affinchè solo il ricercatore perspicace possa riconoscere le qualità ed identificarne la sostanza. Non abbiamo voluto seguire il metodo antico, secondo il quale si forniva un'indicazione esatta, esprimendola con una parabola, ma accompagnata da una o parecchie aggiunte speciose o falsificate, allo scopo di sviare il lettore incapace di separare il grano buono dal loglio. Certo questo lavoro può essere discusso e criticato, poiché è più difficile di quanto si creda a prima vista; ma non pensiamo che ci si potrebbe accusare d'aver scritto una sola menzogna. Dice il proverbio che non tutte le verità si possono dire; noi crediamo, a scapito del proverbio, che si può farle capire servendosi di qualche sottigliezza della lingua. «La nostra Arte è interamente cabalistica» diceva un tempo Artephius; infatti la cabala ci è stata sempre di grande aiuto. Essa ci ha permesso, senza truccare la verità, senza snaturare l'espressione, senza falsificare la Scienza e senza essere spergiuri, di dire molte cose che sarebbero inutilmente cercate nei libri dei nostri predecessori. Talvolta davanti all'impossibilità, nella quale ci troviamo, di spingerci più in là senza violare il nostro giuramento, abbiamo preferito mantenere il silenzio ed il mutismo anziché fare allusioni non vere o abbandonarci ad un eccesso di confidenza.
Anche qui, davanti al Segreto dei Segreti, davanti a quel Verbum dimissum già menzionato, potremmo aggiungere soltanto che esso fu confidato da Gesù ai suoi Apostoli, secondo le testimonianze di san Paolo* (* Saint Paul, Epìtre aux Colossiens, cap. I, vv. 25 e 26.):
 «Io sono stato fatto ministro della chiesa per volontà di Dio, il quale mi ha inviato a voi per compiere la SUA PAROLA. Cioè il SEGRETO che è rimasto nascosto sempre ed in ogni età, ma che ora Egli rivela a coloro che giudica degni.» Cosa possiamo dire, se non riportare la testimonianza dei grandi maestri che, anch'essi, hanno tentato di spiegarlo? «Il Caos metallico prodotto dalla natura contiene in sé tutti i metalli ma non è un metallo. Contiene oro, argento e mercurio, ep- pure non è oro ne argento ne mercurio* (* Le Psautier d'Hermophile, sta nei Traités de la Transmutation des Metaux. Manoscritto anonimo del XVIII secolo, strofa XXV.)». Questo testo è chiaro; ma se preferite il linguaggio simbolico ecco un esempio tratto da Haymon* (*Haymon, Epistola de Lapidibus Philosophicis. Trattato 192, t. VI del Theatrum Chemicum. Argentorati, 1613.) che ci dice:
«Per ottenere il primo agente, si deve andare nella parte po steriore del mondo, là dove si sente brontolare il tuono, soffiare il vento, cadere la grandine e la pioggia; là si potrà trovare la cosa se la si cerca.»
 Tutte le descrizioni che ci hanno lasciato i Filosofi, circa il loro soggetto, o materia prima che contiene l'agente indispensabile, sono molto confuse ed assai misteriose. Eccone qualcuna scelta tra le migliori.
L'autore del commento sulla Lumière sortant des Ténèbres, scrive a pag. 108: «L'essenza nella quale si trova lo spirito che noi cerchiamo è innestata ed impressa in esso, anche se con un aspetto e delle caratteristiche imperfette; la stessa cosa è detta da Ripleus Anglois all'inizio delle sue Douze Portes; e Aegidius de Vadis, nel suo Dialogue de la Nature, mostra chiaramente e come se fosse inciso in lettere d'oro che in questo mondo è rimasta una porzione di questo Caos primitivo, nota ma disprezzata da tutti, e che è venduta pubblicamente.» Lo stesso autore dice ancora, a pag. 263, che « questo soggetto si trova in parecchi luoghi ed in ognuno dei tre regni; ma se consideriamo le possibilità della natura è certo che la sola natura metallica deve essere aiutata dalla natura e con la natura; quindi dobbiamo cercare il soggetto, adatto alla nostra arte, soltanto nel regno minerale, nel quale risiede lo sperma metallico.»
A sua volta Nicolas Valois* (* Oeuvres de N. Grosparmy et Nicolas Valois, ms. già citato, p. 140.) ci dice: «Esiste una pietra dalle grandi virtù, che è chiamata pietra ma non è una pietra, è minerale vegetale e minerale, si trova in tutti i luoghi ed in ogni tempo, presso qualsiasi persona.»
Anche Flamel* (* Nicolas Flamel, Originai du Désir dèstre, o Thésor de Philosophie, Parigi, Hulpeau, 1629, p. 144.) scrive: «C'è una pietra occulta, nascosta e sepolta profondamente sotto una sorgente, essa è vile, povera e senza nessun valore; ed è coperta d'escrementi e di sterco; ad essa, sebbene sia sempre la stessa, vengono dati parecchi nomi diversi. Il Saggio Morien dice che questa pietra, che non è pietra, è animata perché ha la virtù di procreare e di generare. Questa pietra è tenera, ed ha la sua origine in Saturno o in Marte, Sole e Venere; e se essa è Marte, Sole e Venere... »
Le Breton* (* Le Breton, Clefs de la Philosophie Spagyrique. Parigi, Jombert, 1722, p. 240.) dice: «C'è un minerale, noto ai veri Sapienti, che nei loro scritti lo nascondono sotto diversi nomi, esso contiene abbondantemente il fisso e il volatile.»
Un anonimo* (* La Clef du Cabinet hermétique, ms. già citato, p. 10.) scrive: «I Filosofi hanno avuto ben ragione di nascondere questo mistero agli occhi di coloro che apprezzano le cose soltanto per l’uso ch'essi ne fanno; perché se costoro conoscessero, o se fosse loro apertamente svelata la Materia, che Dio ha voluto nascondere nelle cose che a loro sembrano utili, essi non la stimerebbero più.» Questo brano è analogo ad un altro, tratto dall’Imitation* (* Imitatìon de Jésus-Christ, libro II, cap. 1, v. 6.) con il quale chiuderemo la raccolta di queste citazioni astruse: «Colui che stima le cose per ciò ch'esse valgono, e non giudica secondo il merito o la stima degli uomini, costui possiede la vera Saggezza.»
Torniamo alla facciata d'Amiens.
L'anonimo maestro che scolpì i medaglioni del portico della Vergine Madre, ha interpretato in maniera assai curiosa, la condensazione dello spirito universale; un Adepto contempla il flusso di rugiada celeste che cade su di una massa informe, scambiata da molti autori per un vello. Senza infirmare quest'opinione, è altrettanto verosimile interpretare quella forma come quella d'un corpo diverso, come il minerale indicato col nome di Magnesia o di Calamità filosofica. Si può notare che quest'acqua cade soltanto sul soggetto considerato, cosa, questa, che conferma la considerazione che questo corpo nasconda in sé una virtù attrattiva, che sarebbe certo assai importante cercare distabilire (tav. XXXVII).
Crediamo che sia questo il luogo per correggere alcuni errori commessi a proposito d'un vegetale simbolico, che, preso alla lettera da alcuni soffiatori ignoranti, contribuì grandemente a gettare il discredito sull'alchimia ed il ridicolo sui suoi partigiani. Vogliamo parlare del Nostoc. Questa pianta è un criptogamo, nota a tutti i contadini, la si trova dappertutto, in campagna, sia sull'erba, sia sul terreno umido, nei campi, lungo i sentieri o ai margini dei boschi. In primavera, di buon mattino, se ne trovano di voluminose, gonfie di rugiada notturna. Gelatinose, e tremolanti, — da cui deriva il loro nome di tremelle, — sono per lo più verdastre e si seccano cosi rapidamente sotto l'azione dei raggi solari, che dopo qualche ora è impossibile ritrovarne le tracce sul posto stesso su cui poche ore prima erano sparse. La combinazione di tutti questi caratteri differenti, — improvvisa apparizione, assorbimento d'acqua e rigonfiamento, colore verde, consistenza molle e scivolosa, — ha permesso ai Filosofi di prendere quest'alga come segno geroglifico della loro materia. Ed è certo un ammasso di questo tipo, simbolo della Magnesia minerale dei Saggi, che nel quadrifoglio di Amiens è scolpito mentre assorte la rugiada celeste. Tralasceremo i numerosi nomi dati al nostoc e che nelle intenzioni dei Maestri indicavano solo il loro principio minerale: Arca celeste, Sputo di Luna, Burro di terra, Grasso di rugiada, Vetriolo vegetale, Flos Coeli, ecc. a seconda che la considerassero come ricettacolo dello Spirito universale o come materia terrestre evaporata dal centro allo stato di vapore, e poi coagulata per raffreddamento al contatto dell'aria.
Questi strani nomi, che pure hanno la loro ragion d'essere, hanno fatto dimenticare il significato reale ed iniziatico del Nostoc. Questa parola deriva dal greco …., ……, e corrisponde al latino nox, noctis, notte. Si tratta, dunque, d'una cosa che nasce di notte, ha bisogno della notte per svilupparsi, e può essere lavorata soltanto di notte. In questo modo il nostro soggetto, è stato mirabilmente nascosto agli sguardi profani, sebbene possa essere facilmente individuato e lavorato da coloro che hanno un'esatta conoscenza delle leggi naturali. Ma quante poche persone riflettono, ahimè! tutte le altre si limitano ad un ragionamento superficiale!
Vediamo, ci dite, voi che avete tanto arato, che cosa pretendevate di fare con i vostri forni accesi, con i vostri numerosi, svariati ed inutili utensili? Speravate forse di compiere, di sana pianta, una vera e propria creazione? — No di certo, perché la facoltà di creare appar- tiene soltanto a Dio, unico Creatore. Quindi desideravate provocare, in seno ai vostri materiali, una generazione. Ma in questo caso, avete bisogno dell'aiuto della natura, e potete star certi che quest'aiuto vi sarà rifiutato se per disgrazia o per ignoranza, non ponete la natura in condizione d'applicare le sue leggi. Qual è, dunque, la condizione primordiale, essenziale, perché si possa manifestare una qualunque generazione? Risponderemo per voi: l'assenza totale della benché minima luce solare anche se diffusa o schermata. Guardatevi intorno, interrogate la vostra propria natura. Non vedete che, nell'uomo e negli animali, la fecondazione e la generazione avvengono, grazie alla particolare disposizione degli organi, in una totale oscurità, che viene mantenuta fino al giorno della nascita? — È forse in superfìcie, in piena luce, — o nelle profondità della terra, — nell'oscurità, — che i semi vegetali possono germogliare e riprodursi? È il giorno o la notte, con la sua rugiada fecondante, che li alimenta e li rende vitali? Guardate i funghi; non nascono, crescono e si sviluppano di notte? E Amiens voi stessi, non è forse durante la notte, durante il sonno notturno, che il vostro organismo ripara i danni, elimina le sue scorie, riforma le nuove cellule, i nuovi tessuti al posto di quelli che la luce del giorno ha bruciato, consunto e distrutto? Ed anche il lavoro della digestione, dell'assimilazione e della trasformazione degli alimenti in sangue ed in sostanze organiche, si compie nella oscurità. Volete fare un esperimento? — Prendete delle uova fecondate, fatele covare in una stanza ben illuminata; alla fine dell'incubazione tutte le vostre uova conterranno degli embrioni morti, più o meno decomposti. Se per caso nascerà un pulcino, sarà cieco, malaticcio e non sopravviverà a lungo. Tale è la nefasta influenza del sole sul processo della generazione, ma non sulla vitalità degli individui già formati. Non crediate, poi, che gli effetti d'una legge, fondamentale nella creazione della natura, siano limitati soltanto ai regni organici. Anche i minerali, nonostante la loro reazione meno visibile, sono sottoposti a questa legge, come i vegetali e gli animali. È abbastanza noto che la riproduzione dell'immagine fotografica è basata sulla proprietà dei sali d'argento di decomporsi alla luce. Cioè questi sali riprendono il loro stato metallico inerte, mentre, nel buio del laboratorio, avevano acquisito una qualità attiva, vivente e sensibile. Due gas mescolati, il doro e l'idrogeno, conservano la loro integrità finché non sono tenuti nell'oscurità; si combinano lentamente alla luce diffusa e con una forte detonazione se interviene la luce del sole. Parecchi sali metallici in soluzione, se esposti alla luce del giorno, si trasformano o precipitano in un tempo più o meno lungo. E cosi il solfato ferroso si muta in solfato ferrico, ecc.... È importante, quindi, ricordare che il sole è il devastatore per eccellenza di tutte le sostanze troppo giovani, troppo deboli per resistere al suo potere igneo. E questo è cosi vero che su quest'azione speciale si è basata una terapia per la guarigione di affezioni esterne, la cicatrizzazione rapida di piaghe e ferite. Il trattamento fototerapico è stato, quindi, reso possibile dal mortale potere dell'astro sulle cellule dei microbi, prima, e sulle cellule organiche, poi.
Ed ora, se vi pare opportuno, lavorate pure di giorno; ma non ci accusate se i vostri sforzi terminano soltanto con degli insuccessi. Per quel che ci riguarda, noi sappiamo che la dea Iside è la madre di tutte le cose, e che essa le porta tutte nel suo seno, e che soltanto lei è la dispensatrice della Rivelazione e dell'Iniziazione. Profani, voi che avete occhi per non vedere ed orecchie per non udire, a chi indirizzerete le vostre preghiere? Ignorate, forse, che si arriva a Gesù solo per intercessione di sua Madre sancta Maria ora pro nobis? E, per vostra norma, sappiate che la Vergine è raffigurata con i piedi posati sulla falce di luna, sempre vestita di blu, colore simbolico dell'astro notturno. Potremo dire molto di più, ma crediamo d'aver detto abbastanza.
Terminiamo, dunque, lo studio dei simboli ermetici originali della cattedrale d'Amiens, esaminando, alla sinistra dello stesso portico della Vergine-Madre, un piccolo soggetto d'angolo che ci mostra una scena d'iniziazione. Il maestro indica a tre suoi discepoli Vostro ermetico, sul quale ci siamo dilungati già a lungo, la stella tradizionale che serve di guida ai Filosofi e indica loro la nascita del figlio del sole (tav. XXXVIII). A proposito di questa stella, ricordiamo qui il motto di Nicolas Rollin, cancelliere di Filippo il Buono, motto che fu dipinto nel 1447 sul rivestimento di piastrelle dell'ospedale di Beaune, di cui egli era il fondatore. Questo motto, rappresentato con un rebus, — Sola, — manifestava la scienza del suo possessore con il segno caratteristico dell'Opera, l'unica, la sola stella.






BOURGES

I

Bourges, vecchia città del Berry, silenziosa, calma, raccolta e grigia come un chiostro di monastero, fiera a giusto ttiolo di una cattedrale mirabile, offre ancora agli amanti del passato alcuni altri edifici altrettanto notevoli. Tra questi, il Palazzo Jacques-Coeur e il Palazzo Lallemant sono i più puri gioielli della sua meravigliosa corona.
Non ci soffermeremo molto sul primo palazzo, che un tempo fu un vero museo di emblemi ermetici. Su di esso sono passati i vandali. Le sue successive destinazioni hanno rovinato la decorazione degli interni, e, se la facciata non fosse conservata nel suo primitivo stato, ci sarebbe oggi impossibile anche solo immaginare, davanti alle pareti nude, alle sale in rovina, alle alte gallerie dalla volta a carena, quale fu, un tempo, la magnificenza di questa sontuosa dimora.
Jacques Coeur, gran tesoriere di Charles VII, la fece costruire nel XV secolo, egli ebbe la fama d'essere un Adepto esperto. Infatti David de Planis-Campy lo cita, dicendo che possedeva « il prezioso dono della pietra da bianco », in altre parole della trasmutazione dei metalli vili in argento. Da ciò forse derivò il suo titolo di argentier* (*Tesoriere. In francese argent significa argento, soldi, ricchezza N.d.T.). Comunque sia, dobbiamo riconoscere che Jacques Coeur fece di tutto per accreditare questa qualità, vera o falsa che fosse, di filosofo, mediante il fuoco, mettendo in mostra una gran quantità di simboli ben scelti.
Tutti conoscono lo stemma ed il motto di questo gran personaggio: tre cuori formano il centro della leggenda, scritta sotto forma di rebus, A vaillans cuers riens impossible* (*Ai cuori coraggiosi niente è impossibile (N.d.T.). Massima fiera, traboccante d'energia, che ha un significato assai singolare se viene studiata secondo le regole cabalistiche. Infatti, se leggiamo cuer con l'ortografia dell'epoca otterremo contemporaneamente: 1° l'enunciato dello Spirito universale (raggio di luce); 2° il nome volgare della materia di base che fu lavorata (il ferro); 3° le tre ripetizioni necessarie alla perfezione totale dei due Magisteri (i tre cuers). Siamo quindi convinti che Jacques Coeur abbia praticato personalmente l'alchimia, o che, come minimo, abbia visto elaborare sotto i propri occhi la pietra da bianco mediante il ferro «essenzificato» e cotto tre volte.
Il posto principale, tra i simboli preferiti dal nostro tesoriere, è occupato dalla conchiglia di san Giacomo e dal cuore. Queste due immagini sono sempre accoppiate o disposte simmetricamente, come si può vedere nei motivi centrali dei tondi a quattro lobi delle finestrature, delle balaustre, dei pannelli e del picchiotto del portone, ecc.. Senza dubbio c'è, in questo dualismo della conchiglia e del cuore, un rebus imposto, riferito al nome del proprietario, o alla sua firma stenografica. Però le conchiglie del genere a pettine (Pecten Jacoboeus dei naturalisti) sono sempre servite come distintivo ai pellegrini di san Giacomo. Essi le portavano sia sul cappello (come si può notare su di una statua di Saint-James nell'abbazia di Westminster, sia intorno al collo, e sia, infine, fissate sul petto, sempre disposte in modo da essere ben visibili. La Merelle de Compostelle (tav. XXXIX), (* Merelle o Mareille sono le forme femminili del sostantivo mereau (di etimologia sconosciuta), che ha il significato di gettone di presenza. La merelle, quindi, è il nome proprio dell'oggetto con cui si gioca (un disco, una pietra piatta, un coccio) al gioco che in italiano è detto: campana. In particolare, in Francia, la morelle viene giocata, tra l'altro, su uno schema disegnato a terra, — avente la forma d'una croce, e diviso in 10 stazioni. Si parte da un'estremità chiamata Terra e si deve giungere all'altra estremità chiamata Cielo; poi si deve tornare indietro. Qui la merelle è accoppiata al significato simbolico del pellegrinaggio; ma Fulcanelli, servendosi della cabala, va ancora più in là. N.d.T.). sulla quale potremmo approfondire parecchie cose, serve, nella simbologia segreta, ad indicare il principio Mercurio* (* Il Mercurio è l'acqua benedetta dei Filosofi. Le grandi conchiglie, un tempo, servivano a contenere l'acqua benedetta; ancora oggi, se ne trovano spesso in molte chiese rurali.) chiamato anche Viaggiatore o Pellegrino. Essa è portata misticamente da tutti coloro che iniziano il lavoro e cercano di ottenere la stella (compostella). Niente di strano, allora, che Jacques Coeur abbia fatto riprodurre, all'ingresso del suo palazzo, l’icon peregrini cosi diffusa presso i soffiatori del medioevo. Nicolo Flamel non descrive forse parafrasando, nelle sue Figures Hiéroglyphiques, il viaggio che intraprese per chiedere, come egli ci dice, «al Signore Jacques di Galizia» aiuto, luce e protezione? Agli inizi tutti gli alchimisti sono a questo stadio. Devono compiere, col bordone come guida e la « merelle » come distintivo, quel lungo e pericoloso viaggio di cui una metà è terrestre e l'altra metà marittima. Prima pellegrini, poi piloti.
La cappella, restaurata ed interamente dipinta, è poco interessante. Tranne il soffitto, dalle volte ad ogive incrociate, nel quale una ventina d'angeli un po' troppo recenti e che hanno sulla fronte il globo e srotolano delle scritte, ed una Annunciazione scolpita sul timpano della porta, non resta più nulla del simbolismo d'una volta. Occupiamoci, dunque, del pezzo più originale del Palazzo.
Si tratta d'un bei gruppo, scolpito su di un fondo di lampada, che orna la stanza cosiddetta del Tesoro. Si dice che rappresenti l'incontro di Tristano e Isotta. Noi non contraddiremo questa interpretazione, perché il soggetto non cambia assolutamente il significato simbolico che si ricava dalla scultura. Questo bei poema medioevale fa parte del ciclo dei romanzi della Tavola rotonda, leggende ermetiche tradizionali, innovazioni delle antiche favole greche. La leggenda di Tristano e Isotta si riferisce direttamente alla trasmissione delle antiche conoscenze scientifiche, nascoste sotto il velo d'ingegnose storie fantastiche rese popolari dal genio dei nostri menestrelli piccardi (tav. XL).
Al centro del bassorilievo, sporge uno scrignetto cubico e cavo. posto ai piedi d'un albero fronzuto, il cui fogliame nasconde la testa incoronata del re Marco. Ai due lati vediamo Tristan de Léonois e Isotta, lui ha un copricapo a cercine, lei ha invece una corona, ed è raffigurata mentre la sta tenendo con la mano destra. I nostri personaggi sono immaginati nella foresta di Morois, su di un folto tappeto di erbe e fiori, ed ambedue guardano fissamente la misteriosa pietra scavata che li separa.
Il mito di Tristano de Léonois è una replica di quello di Teseo. Tristano combatte e uccide il Morhout, Teseo il Minotauro. Ritroviamo qui il geroglifico della preparazione del Leone verde, — da cui deriva il nome di Léonois o Léonnais portato da Tristano, — tale preparazione è insegnata da Basilio Valentino mediante la parabola della lotta di due campioni, l’aquila e il drago. Questo combattimento singolare dei corpi chimici la cui combinazione produce il solvente segreto (e il vaso dell'amalgama), è stato l'argomento di moltissime favole profane e d'allegorie sacre. Quella di Cadmo che trafigge il serpente contro una quercia; quella di Apollo che uccide con le sue frecce il mostro Pitone e di Giasone che uccide il drago della Colchide; ed ancora Horus che combatte contro il Tifone del mito di Osiride; Ercole che taglia la testa dell'Idra e Perseo che taglia quella della Gorgone; e poi san Michele, san Giorgio, san Marcello che abbattono il Drago, copie cristiane di Perseo, che a cavallo di Pegaso, uccide il mostro che sorveglia Andromeda; ed è anche il combattimento della volpe e del gallo, di cui abbiamo già parlato descrivendo i medaglioni di Parigi; quello dell'alchimista col drago (Ciliani), della remora e della salamandra (di Cyrano Bergerac), del serpente rosso e di quello verde, ecc....
Questo solvente poco comune permette il reincrudimento* (*Termine di tecnica ermetica che significa rendere crudo, cioè riportare ad uno stadio anteriore a quello che caratterizza la maturità, retrocedere.) dell'oro naturale, il suo ammoirbidimento ed il ritorno allo stato primitivo sotto forma di sale, friabile e facilmente fusibile. Questo è il ringiovanimento del re, segnalato da tutti gli autori, inizio d'una nuova fase evolutiva, impersonificata, nel bassorilievo di cui ci stiamo occupando, da Tristano, nipote del re Marco. Infatti, dal punto di vista chimico, lo zio ed il nipote non sono altro che la stessa cosa, dello stesso genere e d'origine simile. L'oro perde la propria corona, — perdendo il colore, — per un certo periodo di tempo, e se ne vede privato finché non è giunto a quel grado di superiorità a cui può essere portato dall'arte e dalla natura. Allora eredita una seconda corona, «infinitamente più nobile della prima ». come ci assicura Limojon de Saint-Didier. Per questo vediamo in primo piano, nettamente in rilievo, le immagini di Tristano e della regina Isotta, mentre il vecchio re rimane nascosto tra il fogliame dell'albero centrale, che nasce dalla pietra come l'albero di Jessé nasce dal petto del patriarca. Notiamo ancora che la regina è contemporaneamente la sposa del vecchio e del giovane eroe; ciò per mantenere la tradizione ermetica che impersonifìca nel re, nella regina e nell'amante la triade minerale della Grande Opera. Segnaliamo, infine, un particolare d'un certo valore per l'analisi dei simboli. L'albero situato dietro Tristano è carico di frutti enormi, — pere o fichi giganteschi, — e cosi abbondanti che il fogliame sparisce dietro una tale abbondanza. È una strana foresta quella di Mort-Roi* (* Re-morto. In francese Morois e Mort-Roi hanno la stessa pronuncia, ma, come si vede, la cabala nasconde dei significati preziosi N.d.T.), saremmo proprio portati a confonderla con il favoloso e meraviglioso Giardino delle Esperidi.


II


Ma il Palazzo Lallemant ci farà soffermare attentamente, assai di più che non il Palazzo Jacques-Coeur. Si tratta d'una casa borghese di dimensioni modeste e di stile meno antico dell'altro edifìcio, offre però il raro vantaggio di presentarsi a noi in perfetto stato di conservazione. Nessuna restaurazione, nessuna mulilazione gli hanno tolto il bei carattere simbolico proveniente dall'abbondante decorazione, composta da temi delicati e minuziosi.
Il corpo di fabbrica, costruito contro una scarpata, ha la base della facciata più bassa di circa un piano rispetto al livello del cortile. Questa particolare disposizione ha bisogno d'una scala, coperta con volta a tutto sesto. Sistema ingegnoso ed originale, che permette l'accesso al cortile interno, da cui si accede agli appartamenti.
Sul pianerottolo, coperto da una volta, all'inizio della scala, il guardiano, — del quale dobbiamo lodare la squisita affabilità, — apre una piccola porta alla nostra destra. «Questa, ci dice, è la cucina.» È una stanza piuttosto grande, scavata sotto il livello del terreno, ma col soffitto basso, e illuminata a malapena da una sola finestra, che si sviluppa in larghezza ed ha una crociera di pietra. Un piccolo caminetto, poco profondo: questa è la cucina. Per convalidare la sua affermazione il cicerone mostra un fondo di lampada, posto in un ricasco di archi, in cui è raffigurato un garzone* (* «Clerc» nel testo francese; letteralmente: chierico. Ma questa parola è, foneticamente, eguale a «clair», chiaro; quindi il significato è per estensione: colui che vede chiaro, colui che sa N.d.T.) che stringe il manico d'un pestello. È veramente l'immagine d'uno sguattero del XVI secolo? Noi siamo scettici. Il nostro sguardo va dal piccolo caminetto, — nel quale si potrebbe a malapena arrostire un tacchino, ma che basterebbe a contenere la torre d'un athanor, — al bamboccio promosso cuoco, e poi si rivolge alla cucina, cosi triste, cosi buia in questa luminosa giornata d'estate...
Più riflettiamo e meno la spiegazione della guida ci sembra verosimile. Questa sala bassa, oscura, resa ancor più lontana dalla sala da pranzo da una scala e da un cortile scoperto, questa sala che ha come unica attrezzatura un camino stretto, insufficiente, sprovvisto di fondo in ferro forgiato e d'un supporto a cremagliera, non potrebbe ospitare, evidentemente, nessuna attività culinaria. Ed invece ci sembra proprio la sala adatta per un lavoro alchemico, dal quale deve essere esclusa la luce solare, nemica della generazione. Quanto allo sguattero, conosciamo troppo bene la cura, la coscienza, lo scrupolo d'esattezza col quale lavoravano gli imaigiers* (* Scultori N.d.T.) d'un tempo quando traducevano in scultura le loro idee, per chiamare pestello lo strumento che questa statua mostra al visitatore. Non riusciamo a credere che l'artista abbia dimenticato di rappresentare il mortaio, attrezzo che avrebbe completato la raffigurazione. Del resto, solo la forma dell'utensile è caratteristica ma ciò che il bamboccio in questione tiene in mano è in realtà un matraccio a collo lungo, simile a quelli che usano i nostri chimici, e che essi chiamano anche palloni, a causa della loro pancia sferica. Infine, l'estremità del manico di questo supposto pestello è svuotata e tagliata di sbieco, cosa questa che prova proprio che abbiamo a che fare con un utensile cavo, sia esso vaso o fiala (tav. XLI).
Questo vaso indispensabile e tanto misterioso è stato chiamato con molti nomi, tutti scelti in modo da distogliere i profani, non solo dalla sua vera destinazione ma anche da ciò con cui è fatto. Gli Iniziati ci capiranno e sapranno di quale vaso intendiamo parlare. In genere è chiamato uovo filosofico e Leone verde. Con la parola uovo, i Saggi vogliono indicare la loro amalgama, disposta nel vaso adatto, e pronta a subire le trasformazioni che saranno provocate dall'azione del fuoco. In questo senso, è proprio come un uovo, perché l'involucro, o il guscio, racchiude in sé il rebis filosofale, formato dal bianco e dal rosso secondo una proporzione simile a quella dell'uovo degli uccelli. Il secondo epiteto, invece, non è stato mai spiegato in nessun testo. Batsdorff, nel suo Filet d'Arìadne, dice che i Filosofi hanno chiamato Leone verde il recipiente che serve alla cottura, ma senza darne nessuna spiegazione. Il Cosmopolita, insistendo maggiormente sulle qualità del vaso e su quanto esso sia necessario nel corso del lavoro, afferma che nell'Opera «c'è soltanto questo Leone verde che chiude ed apre i sette indissolubili sigilli dei sette spiriti metallici, e che tormenta i corpi finché non li abbia completamente perfezionati, a prezzo d'una lunga e perseverante pazienza dell'artista».
Nel manoscritto di G. Aurach* (* Le très précieux Don de Dieu. Manoscritto di Georges Aurach, di Strasbourg. scritto ed illustrato di sua mano, nell'anno della Salvezza dell'Umanità riscattata, 1415.) vediamo un matraccio di vetro pieno per metà d'un liquido verde; l'autore aggiunge che tutta l'arte sta nell'ottenere soltanto questo Leone verde e che il nome stesso ne indica il colore. È il vetriolo di Basilio Valentino. La terza figura del Vello d'oro è quasi identica all'immagine di G. Aurach. Nella prima vediamo un filosofo vestito di rosso, col capo coperto da un berretto verde, e che indossa un mantello di porpora, mentre mostra con la mano destra un matraccio di vetro contenente un liquido verde. Ripley s'avvicina maggiormente alla verità quando dichiara: «Un solo corpo immondo entra nel nostro magistero; comunemente i Filosofi lo chiamano Leone verde. È il mezzo e il modo per unire le tinture tra il sole e la luna.»
Secondo queste informazioni, è chiaro che il vaso è considerato in due modi: per quel che riguarda la materia che lo compone e per la sua forma, da un lato come un vaso di natura, dall'altro come vaso dell'arte. Le descrizioni, — poche e poco chiare, — che abbiamo riportato, si riferiscono alla natura del vaso; una gran quantità di testi, invece ci informano sulla forma dell'uovo. Esso può essere, a piacimento, sferico od ovale, purché sia in vetro bianco, trasparente, ottenuto senza soffiatura. È assolutamente necessario che le sue pareti siano d'un certo spessore, per resistere alle pressioni interne, ed alcuni autori raccomandano di scegliere, a questo scopo, il vetro della Lorena* (*Le parole vetro di Lorena, servivano a distinguere, un tempo, il vetro molato dal vetro soffiato. Grazie alla molatura, il vetro di Lorena poteva avere delle pareti molto spesse e regolari.). II collo, infine, è lungo o corto, secondo le intenzioni dell'artista o secondo la sua comodità; l'essenziale è che lo si possa saldare facilmente con la lampada da smaltatore. Ma questi particolari pratici sono sufficientemente noti, tanto da dispensarci da più ampie spiegazioni.
Noi vorremmo soprattutto far notare che il laboratorio ed il vaso per l'Opera, il luogo nel quale lavora l'Adepto e quello nel quale agisce la natura, sono le due cose certe che colpiscono l'iniziato al principio della visita e che rendono il Palazzo Lallemant una delle più seducenti e rare dimore filosofali.
Preceduti dalla guida, eccoci adesso nel cortile lastricato. Con pochi passi raggiungiamo l'ingresso d'una loggia abbondantemente illuminata da un portico formato da tré archi e tutto sesto. È una grande sala, dal soffitto sottolineato da grossi travetti. Vi si trovano dei monoliti, delle stele ed altri frammenti antichi, che conferiscono al luogo l'aspetto d'un museo d'archeologia locale. Ma il nostro interesse è rivolto ad altro, al muro di fondo nel quale è incastrato un magnifico bassorilievo in pietra dipinta. Esso rappresenta san Cristoforo che depone il piccolo Gesù sulla riva rocciosa del famoso torrente ch'essi hanno appena attraversato. In secondo piano, un eremita, con la lanterna in pugno, — perché la scena avviene di notte, — esce dalla sua capanna e viene verso il Bambino-Re (tav. XLII).
Ci è capitato spesso di trovare delle belle rappresentazioni di san Cristoforo; però nessuna di esse è rimasta cosi aderente alla leggenda come questa. Ci sembra, quindi, senza alcun dubbio, che il soggetto di questo capolavoro e il testo di Jacques de Voragine contengano lo stesso significato ermetico, con, in più, alcuni particolari che non si potrebbero trovare altrove. San Cristoforo, perciò, acquista una capitale importanza in rapporto all'analogia esistente' tra questo gigante, che porta il Cristo, e la materia che porta l'oro (parola greca), che ha quindi lo stesso ruolo che ha nell'Opera. Poiché è nostra intenzione essere utili allo studioso sincero e in buona fede, spiegheremo subito il significato esoterico, che invece abbiamo lasciato da parte quando abbiamo parlato delle statue di san Cristoforo e del monolito innalzato sul sagrato di Notre-Dame a Parigi. Ma, volendo farci capire ancora meglio, trascriveremo per prima cosa il racconto della leggenda riportato da Amédée de Ponthieu* (*Amédée de Ponthieu, Légendes du Vieux Paris. Parigi, Bachelin-Deflorenne, 1867, p. 106.) secondo Jacques de Voragine. Sottolineeremo a bella posta i passaggi e i nomi che si riferiscono direttamente al lavoro, alle condizioni ed ai materiali, perché ci si possa fermare, riflettere e trame profitto.
«Prima d'essere cristiano, Cristoforo si chiamava Offerus; era una specie di gigante, dalla mente molto ottusa. Quando raggiunse la maggiore età, si mise in viaggio dicendo che voleva servire il più gran re della terra. Gli consigliarono d'andare alla corte di un re molto potente che fu ben contento d'avere un servitore cosi forte. Un giorno il re, sentendo un menestrello pronunciare il nome del diavolo, terrorizzato, si fece il segno della croce. — Perché fai cosi? chiese subito Cristoforo. — Perché io ho paura del diavolo, rispose il rè. — Ma se lo temi, non sei dunque altrettanto potente? Allora io voglio servire il diavolo. — Cosi detto, Offerus si allontanò dalla corte.
«Dopo una lunga marcia alla ricerca di questo potente monarca, vide avanzare una grande schiera di cavalieri vestiti di rosso; il loro capo era nero e gli disse : — Che cosa desideri? — Io cerco il diavolo per servirlo. — Io sono il diavolo, seguimi. — E così Offerus si trovò arruolato tra i servitori di Satana. Un giorno, durante una lunga corsa, la schiera infernale incontrò una croce sul bordo della strada; il diavolo ordinò di tornare indietro. — Perché? chiese Offerus, sempre desideroso d'imparare. — Perché io temo l'immagine del Cristo. — Se tu temi l'immagine del Cristo, significa che tu sei meno potente di lui; allora io voglio entrare al servizio del Cristo. — Offerus, da solo, passò davanti alla croce e continuò la sua strada. Incontrò un buon eremita e gli chiese dove avrebbe potuto vedere il Cristo. — Dovunque, rispose l'eremita. — Non capisco, disse Offerus, ma se dici la verità, quali servizi gli potrebbe rendere un giovanotto robusto e sveglio come me? — Bisogna servirlo, rispose l'eremita, con la preghiera, i digiuni e le veglie. — Offerus fece una smorfia. — Non c'è un altro modo per diventare ben accetto? chiese. — L'eremita comprese con chi aveva a che fare e, presolo per mano, lo condusse sulla riva d'un torrente impetuoso, che scendeva da un'alta montagna; qui giunto, gli disse: — Tanta povera gente che ha attraversato quest'acqua è morta annegata; resta qui, e porta sull'altra riva, sulle tue robuste spalle, quelli che tè lo chiederanno. Se farai questo per amore di Cristo, egli ti riconoscerà come suo servitore. — Volentieri lo farò per amore del Cristo, rispose Offerus. — Quindi si costruì una capanna sulla riva e, giorno e notte, trasportò i viaggiatori che glielo chiedevano.
«Una notte, spossato dalla stanchezza, dormiva profondamente; lo svegliarono dei colpi bussati alla sua porta, e udì la voce d'un bambino che, per tre volte, lo chiamò per nome!. Si alzò, pose il bambino sulle larghe spalle ed entrò nel torrente. Arrivato nel mezzo del letto, vide che improvvisamente il torrente diventava sempre più gonfio e minaccioso, le onde s'ingrossavano e si precipitavano contro le sue gambe nerborute per rovesciarlo. Egli faceva del suo meglio per resistere, ma il bambino pesava come un grosso fardello; allora, nel timore di lasciar cadere il piccolo viaggiatore, sradicò un albero per appoggiarsi; ma i flutti s'ingrossarono ancora, ed il bambino stava diventando sempre più pesante. Offerus, temendo di vederlo morire, alzò la testa verso di lui e gli disse: — Bambino, perché diventi cosi pesante? Mi sembra di star portando il mondo. — Il bambino rispose : — Non solo tu porti il mondo, ma anche colui che ha fatto il mondo. Io sono il Cristo, tuo Dio e tuo padrone. In ricompensa dei tuoi buoni servigi, io ti battezzo nel nome di mio Padre, nel mio proprio nome ed in quello dello Spirito Santo; d'ora in poi tu ti chiamerai Cristoforo. — Da quel giorno, Cristoforo andò viaggiando per il mondo per insegnare la parola del Cristo.»
Questa narrazione è sufficiente per mostrare con quanta fedeltà l'artista ha notato e riprodotto anche i più piccoli dettagli della leggenda. Ma ha fatto anche di meglio. Dietro ispirazione del sapiente ermetista che gli aveva ordinato l'opera* (*Da alcuni documenti conservati negli archivi del Palazzo Lallemant, sappiamo che Jean Lallemant faceva parte della Confraternita alchemica dei Cavalieri della Tavola rotonda.), lo scultore ha raffigurato il gigante, con i piedi ancora in acqua, vestito d'una leggera stoffa annodata sulle spalle e stretta da una larga cintura all'altezza dell'addome. È proprio questa cintura che conferisce a San Cristoforo il suo vero carattere esoterico. Quello che stiamo per dire qui, non si insegna. Ma, in più del fatto che, per molte persone, la scienza qui rivelata resta lo stesso oscura ed incomprensibile, crediamo anche che, d'altra parte. un libro che non insegni nulla sia inutile e vano. Per questo motivo, ci sforzeremo di sviscerare il simbolo, per quanto ci è possibile, in modo da mostrare agli investigatori dell'occulto il fatto scientifico nascosto dalla propria immagine simbolica.
La cintura di Offerus è trapunta secondo linee incrociate, simili a quelle che si vedono sulla superficie del solvente quando è stato preparato canonicamente. Questo è il Segno, che tutti i Filosofi riconoscono per indicare, esteriormente, la virtù, la perfezione e l'estrema purezza intrinseche della loro sostanza mercuriale. Abbiamo già detto, parecchie volte, e lo ripetiamo ancora, che tutto il lavoro dell'arte consiste nel purificare questo mercurio fino a quando non si sia rivestito del segno indicato. Questo segno, gli autori l'hanno chiamato Sigillo di Hermes, Sale dei Saggi (Sel sta per Scel * (Nell'antico francese Sel (sale) e Scel (sigillo). La loro pronuncia è eguale e, come si vede, è simile anche l'ortografia N.d.T.)), — cosa questa che getta la confusione nello spirito dei ricercatori, — segno e impronta dell'Onnipotente, ed anche sua firma, ed ancora Stella dei Magi, Stella polare, ecc. Questa disposizione geometrica sussiste ed appare con maggiore definizione quando si è messo a sciogliere l'oro nel mercurio, per portarlo al suo stadio primitivo, quello di oro giovane o ringiovanito, in una parola di oro bambino. Per questa ragione, il mercurio, — fedele servitore e Scel della terra* (* Sigillo N.d.T.), — è chiamato Fontana di giovinezza. Quindi i Filosofi si esprimono chiaramente quando insegnano che il mercurio, una volta effettuata la soluzione, porta il bambino, il Figlio del Sole, il Piccolo Re (Reuccio), come una vera e propria madre, perché, in effetti, l'oro, nel suo seno, rinasce. «Il vento, — cioè il mercurio alato e volatile, — lo ha portato nel proprio ventre», ci dice Ermes nella sua Tavola Smeraldina. Ritroviamo la versione segreta di questa verità positiva nella Focaccia dei Re, che è usanza dividere tra i mèmbri della famiglia, il giorno dell'Epifania, celebre festa che ricorda la manifestazione di Gesù Cristo bambino ai Re Magi e ai Gentili. La Tradizione vuole che i Magi siano stati guidati fino alla culla del Salvatore da una stella, che fu, per essi, il segno annunciatore, la Buona novella della sua nascita. La nostra focaccia è segnata come lo è la stessa materia e contiene nella pasta il piccolo bambino popolarmente chiamato bagnante. È il Bambino-Gesù portato da Offerus, il servitore o il viaggiatore; è l'oro nel suo bagno, il bagnante; è la fava, lo zoccolo, la culla, o la croce d'onore, ed è anche il pesce «che nuota nel nostro mare filosofico» secondo l'espressione usata dal Cosmopolita* (* Cosmopolite o Nouvelle Lumière chimique. Traile du Sei. Parigi, J. d'Houry, 1669,p. 76.). Facciamo notare che, in alcune basiliche bizantine, il Cristo, talvolta, era rappresentato come le Sirene, con una coda di pesce. Lo si può vedere raffigurato in questo modo anche su di un capitello della chiesa di Saint-Brice a Saint-Brisson-sur-Loire (Loiret). Il pesce è il geroglifico della pietra dei Filosofi al suo primo stato, perché la pietra, come il pesce, nasce nell'acqua e vive nell'acqua. Tra le pitture della stufa alchemica, costruita nel 1702 da P.H. Pfau* (* Conservata nel Museo di Winterthur, Svizzera), si può vedere un pescatore con la lenza che tira fuori dall'acqua un bel pesce. Altre allegorie raccomandano di prenderlo per mezzo d'una reticella o di una rete, che sono un'immagine esatta della maglia, formata da fili incrociati, schematizzata sulle nostre focacce* (* L'espressione popolare avoir de la gaiette equivale a essere fortunato. Chi è abbastanza fortunato da trovare la fava della focaccia non ha più bisogno di niente; non gli mancherà mai il denaro. Sarà due volte re, per la scienza e per la ricchezza.) dell'Epifania. Segnaliamo anche un'altra forma emblematica più rara, ma non meno luminosa. In una famiglia di amici, presso la quale eravamo stati invitati a dividere la focaccia con gli altri, vedemmo sulla crosta, e non senza sorpresa, una quercia che allargava i suoi rami, al posto delle incisioni a losanga che vengono usate normalmente. Al piccolo bagnante era stato sostituito un pesce di porcellana, e questo pesce era una sole* (* Sogliola N.d.T.) (dal latino: sol, solis, il sole). Spiegheremo tra poco il significato ermetico della quercia, parlando del Vello d'oro. Aggiungiamo ancora che il famoso pesce del Cosmopolita, che egli chiama Echineis, è l’oursins* (*5 Riccio di mare N.d.T.) (dal latino: echinus), l’orsacchiotto, la piccola orsa, costellazione nella quale si trova la stella polare. Le impronte di ricci di mare fossili, che si trovano abbondantemente in molti terreni, presentano una faccia radiata a forma di stella. Per questo Limojon de Saint-Didier raccomanda agli investigatori di regolare la loro strada «guardando la stella del nord.»
 Questo pesce misterioso è il pesce regale per eccellenza; chi lo scopre nella sua parte di focaccia è onorato col titolo di re e festeggiato come tale. Ora, un tempo, si chiamava pesce regale soltanto il delfino, o lo storione, il salmone e la trota perché, si diceva, queste varietà di pesce erano riservate alla tavola del re. Ma, in verità, questa denominazione aveva soltanto carattere simbolico, perché il figlio maggiore del re, colui che doveva a sua volta cingere la corona, aveva il titolo di Delfino, che è il nome d'un pesce, e, ancor meglio, d'un pesce regale. Del resto, i pescatori in barca del Mutus Liber cercano di prendere, sia con ami e lenze che con la rete, proprio un delfino. Altri delfini si possono notare in diversi motivi decorativi del Palazzo Lallemant; alla finestra mediana della torretta d'angolo, sul capitello d'un pilastro, ed anche sul coronamento d'una credenza, nella cappella. L’Ichtus greco delle Catacombe romane non ha altra origine. Infatti, Martigny* (* Martigny, Dictionnaire des Antiquités chrétiennes, art. Eucharistie, II edizione, p. 291.) riproduce una curiosa pittura delle Catacombe, che rappresenta un pesce che nuota tra i flutti portando sul dorso un cesto nel quale vi sono dei pani ed un oggetto rosso di forma allungata, che potrebbe essere un recipiente colmo di vino. Il cesto portato dal pesce è lo stesso geroglifico della focaccia; anche la sua struttura, infatti, è eseguita con vimini intrecciati a losanga. Per non dilungarci troppo su questi accostamenti, ci accontentiamo di far notare attentamente la cesta di Bacco chiamata Cista, portata dalle Cristofore in occasione delle processioni dei baccanali e «nelle quali, ci dice Fr. Noèl* (* Fr. Noèl, Dictionnaire de la Fable, Parigi, Le Normant, 1801.), era rinchiuso ciò che c'era di più misterioso.»

 E perfino la pasta di questa focaccia obbedisce alle leggi della sim-
bologia tradizionale. Questa pasta è una sfoglia* (*3 Sfaldabile, a strati, a sfoglie N.d.T.) ed il nostro piccolo bagnante vi è incluso come un segnalibro. In questo c'è una strana ed interessante conferma della materia rappresentata simbolicamente dalla focaccia dei Re. Sendivogius ci fa sapere che il mercurio preparato ha l'aspetto e la forma d'una massa pietrosa friabile e feuilletée* (*4 In francese feuilletée deriva da feuillet (foglio) N.d.T.). «Se l'osservate bene, dice, noterete che essa è completamente sfaldabile.» Infatti, le lamine cristalline, che compongono questa sostanza, sono sovrapposte come i fogli d'un libro, per questa ragione è stata chiamata terra a foglio, o terra di fogli, libro di fogli, ecc. Perciò vediamo la materia prima dell'Opera espressa simbolicamente da un libro ora aperto, ora chiuso, secondo ch'essa sia stata lavorata o sia appena estratta dalla miniera. Talvolta, quando questo libro è raffigurato chiuso, — indicando cosi la sostanza minerale grezza, — non è raro vederlo anche sigillato da sette bande; sono il segno delle sette operazioni successive che permettono di aprirlo poiché ciascuna di esse spezza uno dei sigilli di chiusura. Tale è il Gran Libro della Natura, che racchiude, nelle sue pagine, la rivelazione delle scienze profane e quella dei misteri sacri. È un libro dallo stile semplice, di facile lettura, a condizione, però, che si sappia dove trovarlo, — cosa assai difficile, — e che, soprattutto, lo si sappia aprire, — cosa che è ancora più laboriosa.
Visitiamo adesso l'interno del Palazzo. In fondo al cortile si apre la porta, dall'arco ribassato, che da accesso agli appartamenti. Queste sale sono ricche di cose assai belle, e gli amanti del nostro Rinascimento vi troveranno ampiamente di che soddisfare i loro gusti. Attraversiamo la sala da pranzo, il cui soffitto a cassettoni e l'alto caminetto, istoriato con le insegne di Luigi XII e di Anna di Bretagna, sono delle vere meraviglie, ed entriamo nella cappella.
Si tratta d'un vero gioiello, cesellato ed arabescato con amore da artisti veramente ammirevoli; questa piccola stanza si sviluppa in lunghezza piuttosto che in larghezza e, tranne la finestra trifora in puro stile ogivale, non si può dire che sia una vera cappella. Tutta la decorazione, infatti, è profana, tutti i motivi che la ornano sono presi in prestito alla scienza ermetica. Un superbo bassorilievo dipinto, eseguito, con lo stesso stile del san Cristoforo della loggia, ha per argomento il mito pagano del Vello d'oro. I cassettoni del soffitto servono da cornice a numerose figure geroglifiche. Una bella nicchia istoriata del XVI secolo propone un enigma alchemico. Non c'è una scena religiosa, non un versetto d'un salmo, non una parabola evangelica, nient'altro che il verbo misterioso dell'Arte sacerdotale... È possibile che sia stata celebrata la Messa in questa stanza, dai paramenti cosi poco ortodossi, e che è, invece, tanto propizia, con la sua mistica intimità, alla meditazione, alle letture, oppure alla preghiera del Filosofo? — — Cappella, studio o oratorio? Noi poniamo la domanda senza dare una risposta.
Il bassorilievo del Vello d'oro, è la prima cosa che si nota, entrando: si tratta d'un bellissimo paesaggio in pietra, messo in risalto dal colore, ma poco illuminato, pieno di curiosi dettagli più difficili da studiare adesso che la patina del tempo li rende di diffìcile interpretazione. Al centro d'un anfiteatro roccioso, ricco di muschio e dalle pareti verticali, si alza una foresta di tronchi rugosi e ricchi di fogliame; l'essenza principale di questo bosco è la quercia. Alcune radure lasciano intravedere diversi animali, ma è malagevole riconoscerli, — c'è un dromedario, un bue o una vacca, una rana sulla sommità d'una roccia, ecc., — essi animano l'aspetto selvaggio e poco accogliente del luogo. Dal terreno erboso nascono dei fiori e delle canne del genere phragmites. A destra, la spoglia dell'ariete: essa è posata su di una roccia e sorvegliata da un drago, il cui profilo minaccioso si staglia contro il cielo. Anche Giasone era raffigurato ai piedi d'una quercia, ma questo pezzo della composizione, essendo certamente a tutto tondo e quindi poco aderente, si è staccato dall'insieme (tav. XLIII).
La favola del Vello d'oro è un enigma completo del lavoro ermetico che deve terminare con la Pietra Filosofale* (* Vedi Alchimie, op. cit.). Nella lingua degli Adepti, si chiama Vello d'oro la materia preparata per l'Opera, e lo stesso nome viene dato anche al risultato finale. Cosa, questa, assai esatta, perché queste sostanze si differenziano solo per purezza, fissità e maturità. Pietra dei Filosofi e Pietra Filosofale sono dunque due cose simili, per quel che riguarda la specie e l'origine, ma la prima è cruda, mentre la seconda, che deriva dall'altra, è perfettamente cotta e digerita. I poeti greci ci raccontano che «Zeus fu cosi contento del sacrifìcio fatto in suo onore da Frisso che volle che tutti quelli che avessero posseduto questo vello vivessero nell'abbondanza finché lo conservavano presso di sé, e che, però, fosse permesso a tutti di tentare di conquistarlo.» Si può essere certi, senza paura di sbagliare, che quelli che approfittano di quest'autorizzazione non sono affatto numerosi. E non perché il compito sia impossibile ne particolarmente pericoloso, — perché tutti quelli che conoscono il drago sanno anche come vincerlo, — ma la grossa difficoltà sta nell'interpretazione del simbolismo. In che modo si potrebbe stabilire una concordanza soddisfacente fra tante immagini diverse, fra tanti testi contraddittori? Eppure è il solo mezzo a nostra disposizione per riconoscere la dirczione giusta tra tutti gli altri sentieri senza sbocco, vicoli ciechi, insuperabili, che ci vengono offerti e che tentano il neofìto impaziente di avanzare. Per questo non ci stancheremo mai d'esortare i discepoli a con vergere i loro sforzi verso la soluzione di questo punto oscuro, sebbene materiale e tangibile, vero e proprio asse intorno al quale ruotano tutte le combinazioni simboliche che stiamo studiando.
 In questo caso, la verità ci appare nascosta da due immagini distinte, quella della quercia e quella dell'ariete, le quali rappresentano, come abbiamo appena detto, nient'altro che la medesima cosa sotto due aspetti differenti. Infatti, la quercia è sempre stata scelta, dagli autori antichi, per indicare il nome volgare del soggetto iniziale, come lo si trova in miniera. I Filosofi ci danno le notizie necessario su questa materia, solo con approssimazione, l'equivalente della quale corrisponde alla quercia. La frase di cui ci stiamo servendo può parere equivoca; ce ne dispiace, ma non si potrebbe dire di più senza oltrepassare certi limiti. Soltanto gli iniziati al linguaggio degli dèi capiranno senza sforzo, perché essi posseggono le chiavi che aprono tutte le porte, sia quelle della scienza che quelle della religione. Ma per alcuni presunti cabalisti, giudei o cristiani che siano, ma forniti di pretensione piuttosto che di vera scienza, quanti Tiresia, Talete o Melampo esistono, che siano capaci di comprendere le cose? Certamente noi non ci prendiamo la briga di scrivere per costoro, le cui combinazioni illusorie non approdano a niente di positivo, di solido, di scientifico. Lasciamo, dunque, questi dottori della Kabbala nella loro ignoranza e torniamo al nostro bassorilievo, caratterizzato, dal punto di vista ermetico, dalla quercia.
Nessuno ignora che la quercia ha sovente sulle sue foglie delle piccole escrescenze rotonde e rugose, talvolta bucate da un piccolo foro, e chiamate noci di galla (dal latino: galla). Ora, se noi accostiamo tre parole latine e della stessa famiglia: galla, Gallia, gallus, abbiamo: galla, Gallia, gallo. Il gallo è l'emblema della Gallia e attributo di Mercurio, come dice espressamente Jacob Tollius* (*Manuductio ad Coelum chemicum. Amstelodami, ap. J. Waesbergios, 1688.); esso infatti è il coronamento dei campanili delle chiese francesi, e non senza ragione la Francia è chiamata: Figlia primogenita della Chiesa. Non ci resta che un piccolo passo da fare per scoprire ciò che i maestri dell'Arte hanno nascosto con tanta cura. Continuiamo. Non soltanto la quercia fornisce la galla, ma da anche il Kermès, che, nella Gaia Scienza, ha lo stesso significato di Ermes, essendo permutanti le consonanti iniziali* (* La permutazione, è ovvio, avviene con le parole scritte con la grafia francese; Kermes e Hermès. Cioè tra K e H. N.d.T.). Ambedue questi hanno un significato identico, quello di Mercurio, Però, mentre la galla indica il nome della materia mercuriale grezza, il Kermès (in arabo girmiz, che tinge di scarlatto) caratterizza la sostanza preparata. È importante non confondere queste cose per non perdersi quando si passerà alle prove pratiche. Ricordatevi quindi che il mercurio dei Filosofi, cioè la loro materia preparata, deve avere la capacità di tingere, e che acquista questa capacità soltanto per mezzo delle prime preparazioni.
Quanto al soggetto grossolano dell'Opera, alcuni lo chiamano Magnesia lunarii; altri, più sinceri, lo chiamano Piombo dei Saggi, Saturno vegetale. Filalete, Basilio Valentino, il Cosmopolita lo chiamano Figlio o Bambino di Saturno. Con queste differenti denominazioni si riferiscono talvolta alla sua proprietà magnetica ed attrattiva nei riguardi dello zolfo, talvolta alla sua qualità di fusibilità, alla sua facile liquefazione. Per tutti è la Terra santa (Terra sancta); infine questo minerale ha per geroglifico celeste il segno astronomico dell’Ariete (Aries). Gala in greco significa latte, ed il mercurio è chiamato anche Latte di Vergine (lac virginis). Quindi, fratelli, se seguite attentamente quello che abbiamo detto a proposito della galette des Rois* (* Focaccia dell'Epifania N.d.T.), e se sapete perché gli Egiziani avevano divinizzato il gatto, non avrete più ragione di dubitare del materiale che dovrete scegliere; ormai ne conoscerete chiaramente il nome volgare. Possederete, allora, quel Caos dei Saggi «nel quale si trovano in potenza tutti i segreti occulti», come ci dice Filalete, e che l'artista abile in poco tempo sa rendere attivi. Aprite, cioè decomponete questa materia, cercate d'isolarne la parte più pura, o la sua anima metallica, secondo l'espressione consacrata, ed avrete il Kermes, l'Ermes, il mercurio che tinge, che ha in sé l’oro mistico, proprio come san Cristoforo porta Gesù e l'ariete il proprio vello. Comprenderete perché il Vello d'oro è appeso ad una quercia, proprio come la galla ed il Kermes, e potrete dire, senza essere contro la verità, che la vecchia quercia ermetica fa da madre al mercurio segreto. Accostando tra di loro leggende e simboli, si farà la luce nel vostro spirito e conoscerete cosi la stretta affinità che unisce la quercia all'ariete, san Cristoforo al Bambino-Re, il Buon Pastore alla pecorella, copia cristiana dell'Ermes erioforo, ecc....
Allontanatevi dalla soglia della cappella e ponetevi al centro; alzate gli occhi; potrete ammirare una delle più belle collezioni di emblemi che si possano trovare* (*A questo soffitto se ne possono paragonare altri due inestimabili, ricchi di soggetti ermetici: uno si trova a Dampierre-sur-Boutonne, anch'esso scolpito, del XVI secolo (vedi Le Dimore Filosofali. Roma, Edizioni Mediterranee, 1972); l'altro a Plessis-Bourré, illustrato da dipinti del XV secolo (vedi Deux Logis Alchimiques). Il soffitto, composto di cassettoni disposti su tre file longitudinali, è sostenuto, nel mezzo della luce, da pilastri a pianta quadrata accostati al muro perimetrale, e che hanno quattro scanalature su ciascuna faccia.
Il pilastro di destra, rivolto verso l'unica finestra che illumina questa piccola stanza, ha tra le sue volute un cranio umano posto su di un sostegno di foglie di quercia, ed è provvisto di due ali. Traduzione assai espressiva della nuova generazione, nata dalla putrefazione, che segue la morte, la quale, a sua volta, sopravviene nei composti quando essi hanno perso la loro anima vitale e volatile. La morte del corpo fa apparire un colore blu scuro o nero assegnato al Corvo, geroglifico del caput mortuum dell'Opera. Questo è il segno e la prima manifestazione della dissoluzione, della separazione degli elementi e della futura generazione dello zolfo, principio colorante e fìsso dei metalli. Le due ali sono state messe per indicare che, con l'abbandono della parte volatile ed acquosa, avviene la sconnessione delle parti, e che la coesione è ormai spezzata. Il corpo, mortificato, precipita in cenere nera, dall'aspetto di polvere di carbone. Poi con l'azione del fuoco intrinseco sviluppato da questa disgregazione, la cenere, calcinata, abbandona le proprie impurità grossolane e combustibili; nasce allora un sale puro che con la cottura, pian piano, si colora ed assume l'occulta potenza del fuoco (tav. XLIV).
Il capitello di sinistra mostra un vaso decorativo la cui bocca è fiancheggiata da due delfini. Un fiore, che sembra uscire dal vaso, sboccia con una forma che ricorda quella dei gigli d'araldica. Tutti questi simboli si riferiscono al solvente, o mercurio comune dei Filosofi, principio contrario allo zolfo, del quale abbiamo già visto l'emblema della sua elaborazione sull'altro capitello.
Nella base di ambedue i capitelli, una larga corona di foglie di quercia, traversata verticalmente da un fascio di foglie anch'esse di quercia, riproduce il segno grafico corrispondente, nell'arte spagirica, al nome volgare della materia. Cosi la corona ed il capitello realizzano il simbolo .completo della materia prima, che è anche rappresentata da quel globo, che Dio, Gesù e qualche grande sovrano tengono nella loro mano, come possiamo vedere in tante raffigurazioni.
Ma il nostro intento non è quello di analizzare minutamente tutte le immagini che decorano il cassettonato di questo soffitto, modello del suo genere. L'argomento, assai esteso, avrebbe bisogno di uno studio speciale e ci obbligherebbe a delle frequenti ripetizioni. Ci limiteremo quindi a darne una rapida descrizione ed a riassumere il significato delle immagini più originali. Tra di esse segnaliamo, prima di tutto, il simbolo dello zolfo e della sua estrazione dalla materia prima, il cui simbolo grafico è fissato, come abbiamo appena visto, su ciascuno dei due pilastri. Si tratta d'una sfera armillare deposta su di un fornello ardente, e che ha una notevole rassomiglianza con una delle incisioni del trattato dell'Azoto. Qui il braciere è al posto di Atlante, e quest'immagine del nostro lavoro, già di per sé assai istruttiva, ci dispensa da ogni commento. Poco più in là è raffigurato, un comune alveare, di paglia, riprodotto con le api tutt'intorno; argomento, questo, che è molto spesso usato, specialmente sul forno alchemico di Winterthur, Ecco qui, — che decorazione singolare per una cappella! — un bambino che urina con un forte zampillo nel suo zoccolo. Più in là, lo stesso bambino inginocchiato vicino ad una pila di lingotti appiattiti, tiene un libro aperto, mentre ai suoi piedi giace un serpente morto. — Dobbiamo fermarci o proseguire? — Esitiamo. Un particolare, che sta nella penembra delle modanature, indica il significato del piccolo bassorilievo; sul pezzo più alto della pila si vede il sigillo stellato del re mago Salomone. In basso il mercurio; in alto l'Assoluto. Procedimento semplice e completo che comporta una sola via, esige un'unica materia, ha bisogno d'una sola operazione. «Chi sa compiere l'Opera con il solo mercurio ha trovato ciò che c'è di più perfetto* (* A questo punto Fulcanelli utilizza il post-scriptum della lettera che aveva portato con sé per tanti anni, e che abbiamo già riprodotto in extenso, nel 1957, nella nostra seconda prefazione.)» Questo almeno è quello che affermano tutti i più celebri autori. L'unione dei due triangoli del ferro e dell'acqua, o dello zolfo e del mercurio riuniti in un corpo solo, genera l'astro a sei punte, geroglifico dell'Opera per eccellenza e della Pietra Filosofale realizzata. A fianco di quest'immagine ce n'è un'altra che ci mostra un avambraccio infiammato, la cui mano tiene delle grosse castagne o marroni; più in là lo stesso simbolo geroglifico, uscendo da una roccia, tiene una torcia accesa; qui, invece, c'è il corno d'Amaltea, traboccante di fiori e di frutta, che serve da trespolo ad un francolino o pernice, — l'uccello in questione non è ben caratterizzato; ma che l'emblema sia una gallina nera o la pernice rossa non cambia nulla al significato ermetico espresso. Qui ecco un vaso capovolto, sfuggito per la rottura d'un legame, dalle fauci d'un Icone decorativo che lo teneva in equilibrio: è una versione originale del solve et coagula di Notre-Dame de Paris; poco distante c'è un soggetto poco ortodosso ed alquanto irriverente: un bambino che cerca di spezzare sul proprio ginocchio un rosario; più in là, è raffigurata una larga conchiglia, la nostra merelle, che tiene fissata su di essa e legata per mezzo di alcune bande a spirale, una massa non meglio identificata. Il fondo del cassettone che reca quest'immagine, ripete quindici volte il simbolo grafico che permette l'esatta identificazione del contenuto della conchiglia. Lo stesso segno, — sostituito al nome della materia, — appare li vicino, molto più grande, questa volta, e al centro d'una fornace ardente. In un'altra figura ritroviamo il bambino, — ci pare che sostenga il ruolo dell'artista, — con i piedi posti nella concavità dell'ormai nota merelle mentre getta davanti a sé delle piccole conchiglie, provenienti, cosi ci sembra, dalla grande. Noteremo anche: il libro aperto divorato dal fuoco; la colomba con l'aureola, raggiante e fiammeggiante, emblema dello Spirito; il corvo igneo appollaiato sul cranio che sta beccando, composizione di figure di morte e di putrefazione; l'angelo «che fa girare il mondo» come se fosse una trottola, soggetto ripreso e sviluppato in un piccolo libretto intitolato: Typus Mundi * (* Typus Mundi in quo ejus Calamitates et Pericula nec non Divini, humanique Amorrs antipathia. Emblematice proponimtur a RR. C.S.I.A. Antuerpiae. Aoud Joan. Cnobbaert, 1627.) opera di alcuni Padri Gesuiti; la calcinazione filosofica, simbolizzata da una granata sottoposta all'azione del fuoco in un vaso d'oreficeria, sopra il corpo che si calcina si vede la cifra 3 seguita dalla lettera R, che indicano all'artista la necessità delle tre ripetizioni dello stesso procedimento, sul quale abbiamo più e più volte insistito. Infine l'ultima immagine rappresenta il ludus puerorum, spiegato nel Vello d'oro di Trismosin e raffigurato nello stesso identico modo: un bambino dal viso ilare gioca col suo cavallo di legno, tenendo alta la frusta (tav. XLV).
Abbiamo terminato l'elenco dei principali emblemi ermetici, scolpiti sul soffitto della cappella; chiuderemo l'argomento con l'analisi d'un pezzo assai strano e singolarmente raro.
Scavata nel muro, vicino alla finestra, una piccola nicchia del XVI secolo attira gli sguardi sia per la sua bella decorazione che per il mistero dell'enigma considerato indecifrabile. Nessuno, ci dice il nostro cicerone, è mai riuscito a fornire una spiegazione. Questa lacuna deriva certamente dal fatto che nessuno ha capito né quale scopo avessero i simboli di tutta le decorazione, né quale scienza si nascondesse sotto quei molteplici geroglifici. Il bel bassorilievo del Vello d'oro, che avrebbe potuto essere preso come guida, non è stato considerato nel suo vero significato: è restato, per tutti, un'opera a carattere mitologico nella quale è lasciato libero corso all'immaginazione orientale. Eppure anche questa nicchia reca l'impronta alchemica, che, in quest'opera, abbiamo abbondantemente descritto in tutti i particolari (tav. XLVI). Infatti sulle lesene che reggono l'architrave di questo tempio in miniatura, scopriamo, immediatamente al di sotto dei capitelli, gli emblemi consacrati al mercurio filosofale; la «merelle», conchiglia di san Giacomo, o acquasantiera, sormontata dalle ali e dal tridente attributo del dio marino Nettuno. Si tratta sempre della stessa indicazione del principio acqueo e volatile. Il frontone è costituito da una grande conchiglia decorativa che serve da basamento a due delfini simmetrici e legati, all'estremità, all'asse della composizione. Tré granate avvolte dalle fiamme completano la decorazione di questa credenza simbolica.
L'enigma è composto da due parole: RERE, RER, che sembra non abbiano alcun senso e sono, ambedue, ripetute per tre volte sul fondo concavo della nicchia.
Già in base a questa semplice disposizione, possiamo scoprire un'indicazione preziosa, quella delle tre ripetizioni d'una sola ed unica tecnica celata sotto la misteriosa espressione RERE, RER. Ora, le tre granate ignee del frontone confermano questa tripla azione d'un medesimo procedimento, e, poiché esse rappresentano il fuoco corporeo di quel sale rosso chiamato zolfo filosofale, noi capiremo facilmente che si deve ripetere tre volte la calcinazione di questo corpo per realizzare le tre opere filosofìche, secondo la dottrina di Geber. La prima operazione ci procura lo Zolfo, o medicina del primo ordine; la seconda operazione, assolutamente simile alla prima, ci da l’Elisir, o medicina del secondo ordine, che è diversa dallo Zolfo solo per qualità e non per sua natura; infine la terza operazione, eseguita come le prime due, ci da la Pietra filosofale, medicina del terzo ordine, che contiene in sé tutte le virtù, le qualità e le perfezioni dello Zolfo e dell'Elisir moltiplicate in potenza ed in estensione. Se ci viene chiesto, ancora, in che cosa consiste e come si esegue questa triplice operazione della quale abbiamo appena spiegato i risultati, rinvieremo il richiedente al bassorilievo del soffitto, nel quale si può vedere una granata che si arrostisce in un certo vaso.
Ma in qual modo si può decifrare l'enigma delle due parole prive di senso? — In un modo molto semplice. RÈ, ablativo latino di res, significa la cosa, considerata per quel che riguarda la materia che la compone; poiché la parola RERE è l'accostamento di RE, una cosa, e RE, un'altra cosa, tradurremo con l'espressione due cose in una, oppure una cosa duplice; così RERE sarà l'equivalente di RE BIS. Aprite un dizionario ermetico, sfogliate qualsiasi opera che tratti d'alchimia e troverete che la parola REBIS, usata frequentemente dai Filosofi, caratterizza il loro compost o amalgama, pronta a subire le successive metamorfosi per l'azione del fuoco. Riassumiamo. RE, una materia secca, oro filosofico; RE, una materia umida, mercurio filosofico; RERE o REBIS, una materia duplice, contemporaneamente umida e secca, amalgama di oro e di mercurio filosofico, combinazione che ha ricevuto dalla natura e dall'arte una duplice proprietà occulta, equilibrata esattamente.
Vorremmo essere altrettanto chiari nella spiegazione della seconda parola RER, ma non ci è permesso di rompere il velo di mistero che la ricopre. Nondimeno, per soddisfare, nei limiti del possibile, la legittima curiosità dei figli dell'arte diremo che queste tré lettere contengono un segreto d'importanza capitale che si riferisce al vaso dell'Opera. RER, serve a cuocere, ad unire radicalmente ed indissolubilmente, a provocare le trasformazioni del compost RERE. Ma come si potrebbero dare indicazioni sufficienti senza divenire spergiuro? — Non fidatevi di ciò che dice Basilio Valentino nelle sue Douze Clefs, e guardatevi bene dal prendere alla lettera le sue parole, quando pretende che «chi possiede la materia troverà ben un recipiente in cui cuocerla». Noi, al contrario, affermiamo, — e si può aver fiducia nella nostra sincerità, — che sarà impossibile ottenere il benché minimo successo nell'Opera se non si conosce perfettamente che cosa sia il Vaso dei Filosofi ne con quale materia dev'essere fabbricato. Pontanus confessa che prima di conoscere questo recipiente segreto aveva ricominciato lo stesso lavoro più di duecento volte, ma senza successo, sebbene lavorasse con i materiali adatti e convenienti e secondo il metodo giusto. L'artista deve fare da sé il proprio recipiente; è una massima dell'arte. Di conseguenza, non iniziate nulla prima d'aver tutto perfettamente chiaro su questo guscio dell'uovo, qualificato di secretum secretorum dai maestri del medioevo.
Che cos'è dunque RER? — Abbiamo visto che Re significa una cosa, una materia; R, che è la metà di RE, significherà dunque una mezza cosa, mezza materia. RER equivale, cioè, ad una materia più metà d'un'altra o della sua propria. Notate però che qui non si tratta di proporzioni ma di una combinazione chimica indipendente dalle quantità relative. Per farci capire meglio, prendiamo un esempio e supponiamo che la materia rappresentata da RE sia il realgar o solfuro naturale d'arsenico. R, metà di RE, potrebbe essere, dunque, lo zolfo del realgar od il suo arsenico, queste due sostanze sono simili, o differenti, a seconda che ci si riferisca allo zolfo e all'arsenico separati o combinati nel realgar. In tal modo, RER sarà ottenuto dal realgar più lo zolfo, che è considerato il componente per metà del realgar; oppure aggiungendo l'arsenico considerato come l'altra metà del medesimo solfuro rosso.
Ancora qualche consiglio; cercate per prima cosa RER, cioè il vaso. In seguito saprete facilmente che cos'è RERE. La Sibilla, interrogata sulla definizione di Filosofo, rispose: «È colui che sa fare il vetro.» Applicatevi dunque a fabbricarlo secondo la nostra arte, senza tener conto dei procedimenti dei vetrai. Sarebbe più istruttivo studiare i metodi dei vasai; guardate le tavole di Piccolpassi* (* Claudius Popelin, Les Trois Livres de l'Ari du Potier, del cavaliere Cipriano Piccolpassi. Parigi, Librairie Internationale, 1861.), ne troverete una che rappresenta una colomba le cui zampe sono legate ad una pietra. Non dovete forse, secondo l'eccellente parere di Tollius, cercare e trovare il magistero in una cosa volatile? Ma se non avete un vaso per trattenerla, in che modo potrete impedirle di evaporare, di svanire senza lasciare il minimo residuo? Fate, quindi, prima il vaso, e poi l'amalgama; sigillatelo con cura affinchè nessun vapore possa sfuggire; scaldate il tutto secondo le regole dell'arte fino alla calcinazione completa. Rimettete la porzione pura della polvere ottenuta nella vostra amalgama che sigillerete ancora nello stesso vaso. Ripetete per la terza volta e non ci ringraziate. I vostri ringraziamenti devono essere rivolti al Creatore. Per noi, che non siamo che un punto di riferimento posto sulla grande via della Tradizione esoterica, non reclamiamo nulla, ne ricordo, ne riconoscenza, dovete soltanto preoccuparvi per gli altri quanto noi ci siamo preoccupati per voi.
La nostra visita è terminata. Ancora una volta la nostra ammirazione, pensosa e muta, interroga questi meravigliosi e sorprendenti paradigmi, il cui autore è rimasto per tanto tempo sconosciuto ai nostri. Esiste forse un libro scritto da lui? — Niente sembra indicarlo. Senza dubbio, seguendo l'esempio dei grandi Adepti del medioevo, preferì affidare alla pietra, piuttosto che alla carta, la testimonianza irrefutabile d'una scienza immensa della quale possedeva tutti i segreti. Quindi è giusto, è equo che la sua memoria resti viva tra noi, che il suo nome esca infine dall'oscurità e brilli, come un astro di prima grandezza, nel firmamento ermetico.
Jean Lallemant, alchimista e cavaliere della Tavola Rotonda, merita di prendere posto attorno al santo Graal, e di comunicarsi insieme con Geber (Magister magistrorum), con Ruggero Bacone (Doctor admirabilis). Eguale, per l'estensione del suo sapere, al poderoso Basilio Valentino, al caritatevole Flamel, è superiore ad essi per aver espresso due qualità, eminentemente scientifiche e filosofiche, ch'egli portò al più alto grado di perfezione: la modestia e la sincerità.




LA CROCE CICLICA
DI HENDAYE

 

Piccola città di frontiera dei paesi baschi, Hendaye raccoglie le proprie casette ai piedi dei primi contrafforti pireneici. È racchiusa tra il verde oceano, il lago Bidassoa, lucente e rapido, ed i monti erbosi. La prima impressione, a contatto di quel suolo aspro e rude, è abbastanza penosa, quasi ostile. Sul mare, all'orizzonte, la punta di Fontarabie, color ocra sotto la luce tagliente, sprofonda nelle acque glauche e abbaglianti del golfo e a stento riesce a rompere l'austerità naturale d'un luogo selvaggio. Tranne per il carattere spagnolo delle proprie case, il tipo e l'idioma dei suoi abitanti, l'attrazione tutta particolare d'una recente spiaggia, irta d'orgogliosi palazzi, Hendaye non possiede nulla che possa attirare l'attenzione del turista, dell'archeologo o dell'artista.
All'uscita della stazione, un sentiero di campagna costeggia la strada ferrata e conduce alla chiesa parrocchiale, posta nel centro della cittadina. Le mura nude, affiancate da una massiccia torre, quadrangolare e tronca, si elevano su di un sagrato rialzato di qualche gradino e bordato d'alberi dalla folta chioma. È un edificio volgare, pesante, rimaneggiato, non interessante. Però, vicino al transetto meridionale, si nasconde, sotto il verde fogliame del sagrato, una semplice croce in pietra, altrettanto semplice quanto strana. Questa croce ornava, un tempo, il cimitero e solo nel 1842 fu messa vicino alla chiesa, nel posto che occupa ancor oggi. Almeno questo è quanto ci assicurò un vecchio basco, che, per lunghi anni, aveva svolto le funzioni di sacrestano. Quanto all'origine di questa croce, non se ne sa nulla e ci è stato impossibile raccogliere la benché minima informazione circa l'epoca della sua erezione. Tuttavia, basandoci sulla forma del basamento e su quella della colonna, pensiamo ch'essa non dovrebbe essere anteriore alla fine del XVII secolo o all'inizio del XVIII. Ma quale che sia la sua antichità, la croce di Hendaye, con la decorazione del suo basamento, dimostra di essere il monumento più singolare del primitivo millenarismo, la più rara traduzione simbolica del chiliasmo, che ci sia mai stato dato d'incontrare. Si sa che questa dottrina, prima accettata, poi combattuta da Origene, da san Dionigi di Alessandria e da san Gerolamo, benché la chiesa non l'abbia mai condannata, faceva parte delle tradizioni esoteriche dell'antica filosofia di Ermes.
L'ingenuità dei bassorilievi, la loro esecuzione maldestra ci fanno pensare che questi emblemi di pietra non sono opera d'un professionista dello scalpello e del bulino; ma, lasciando da parte l'estetica, dobbiamo riconoscere che l'oscuro artigiano che scolpi queste immagini possedeva una scienza profonda e delle reali conoscenze cosmografiche.
Sul braccio trasversale della croce, — una croce greca, — si nota l'iscrizione comune, bizzarramente scolpita in rilievo e su due righe parallele, con le parole attaccate le une alle altre; eccole trascritte, rispettandone la disposizione:

OCRUXAVES

P E S U N I C A

 Certo, è facile ricostruire la frase ed il significato ben noto: O crux ave spes unica. Tuttavia, se noi traducessimo da persone inesperte, non si riuscirebbe a comprendere che cosa si dovrebbe desiderare, dal basamento o dalla croce, ed una simile invocazione potrebbe sorprendere. In verità, dovremmo spingere la disinvoltura e l'ignoranza a tal punto da disprezzare le più elementari regole di grammatica; pes, nominativo maschile, vuole l'aggettivo unicus, che è dello stesso genere, e non il femminile unica. Sembrerebbe dunque che la deformazione della parola spes, speranza, in pes, piede, per ablazione della consonante iniziale, sia l'involontario risultato d'una assoluta mancanza di pratica presso il nostro scalpellino. Ma l'inesperienza può veramente giustificare una simile stranezza? Noi non possiamo ammetterlo. Infatti, il paragone tra i motivi eseguiti dalla stessa mano e allo stesso modo dimostra l'evidente preoccupazione per una normale distribuzione e l'accuratezza per la loro disposizione ed il loro equilibrio. Perché l'iscrizione sarebbe stata eseguita con meno scrupoli? Un suo attento esame permette di stabilire che i caratteri sono precisi, se non eleganti, e che non si accavallano (tav. XLVII). Senza dubbio il nostro artigiano li scrisse prima con il gesso o il carbone, e questo schizzo deve necessariamente allontanare ogni idea d'un possibile errore sopravvenuto durante la lavorazione. Ma poiché esso esiste, bisogna, di conseguenza, che questo errore apparente sia, in realtà, voluto. La sola spiegazione che possiamo invocare è quella d'un segno messo a bella posta, nascosto sotto l'aspetto d'un'inspiegabile esecuzione sbagliata e destinato quindi a risvegliare la curiosità dell'osservatore. Diremo, dunque, che secondo noi l'autore scientemente e volontariamente dispose in quel modo l'epigrafe di questa opera che ci colpisce.
Lo studio del piedistallo ci aveva già illuminato, e sappiamo già in che modo, con l'aiuto di qualche chiave, era meglio leggere l'iscrizione del monumento; ma vogliamo mostrare ai ricercatori di quale aiuto possono essere, per risolvere i significati nascosti, il semplice buon senso, la logica ed il ragionamento.
La lettera S, che prende in prestito la forma sinuosa del serpente, corrisponde al khi (x) della lingua greca e ne assume anche il significato esoterico. È la traccia elicoidale del sole giunto allo zenit della sua traiettoria nello spazio, al tempo della catastrofe ciclica. È un'immagine teorica della bestia dell'Apocalisse, del drago che vomita, nei giorni del giudizio, il fuoco e lo zolfo sulla creazione macrocosmica. Grazie al valore simbolico della lettera S, messa in posizione errata a bella posta, comprendiamo che l'iscrizione dev'essere tradotta in linguaggio segreto, cioè nella lingua degli dei o quella degli uccelli e che si deve scoprire il significato per mezzo delle regole della Diplomazia. Alcuni autori ed in particolare Grasset d'Orcet, nell'analisi del Songe de Polyphile, pubblicata dalla Rivista Britannica, le hanno fornite abbastanza chiaramente tanto da dispensarci dal parlarne ancora dopo di loro. Dunque, leggeremo in francese, lingua dei diplomatici, il latino tale e quale come è scritto; poi, usando le vocali permutanti, otterremo l'assonanza delle nuove parole che compongono un'altra frase della quale ristabiliremo l'ortografìa e l'ordine dei vocaboli ed anche il senso letterale* (* Nel testo: Il est écrit que la vie se réfugie en un seul espace. N.d.T.): È scritto che la vita si rifugi in un sol luogo* (* Dal latino spatium, preso nel significato di luogo, posto, ubicazione, dategli da Tacito. Corrisponde al greco ….., radice ….., paese, contrada, territorio.), apprendiamo cioè che esiste un paese nel quale la morte non toccherà gli uomini, quando sarà il terribile momento del duplice cataclisma. Tocca a noi cercare, poi, la posizione geografica di questa terra promessa, dalla quale gli eletti potranno assistere al ritorno dell'età d'oro. Perché gli eletti, figli di Elia, secondo le parole della Scrittura, saranno salvati. Perché la loro fede profonda, la loro instancabile perseveranza nella fatica avrà fatto meritare loro d'essere elevati al rango di discepoli del Cristo-Luce. Essi porteranno il suo segno e riceveranno da lui la missione di ricollegare all'umanità rigenerata la catena delle tradizioni dell'umanità scomparsa.
La faccia anteriore della croce, — quella che ricevette i tre terribili chiodi che fissarono al legno maledetto il corpo dolorante del Redentore, — è indicata dall'iscrizione INRI, incisa sul suo braccio trasversale. Questa iscrizione corrisponde all'immagine schematica del ciclo riportato sul basamento (tav. XLVIII). Quindi siamo in presenza di due croci simboliche, strumenti del medesimo supplizio: in alto, la croce divina, esempio del modo scelto per espiare, in basso la croce del globo, che indica il polo dell’emisfero boreale e che individua nel tempo l'epoca fatale di quest'espiazione. Dio Padre tiene in mano questo globo sormontato dal segno igneo, ed i quattro grandi secoli, — figurazioni storiche delle quattro età del mondo, — hanno i loro sovrani rappresentati con lo stesso attributo: Alessandro, Augusto, Carlomagno, Luigi XIV* (*I primi tre sono degli imperatori, il quarto è soltanto rè, il Rè-Sole, ed indica in tal modo il declino dell'astro ed il suo ultimo sprazzo di luce. È il crepuscolo che precede la lunga notte ciclica, piena d'orrore e di spavento, «l'abominazione della desolazione».). Questo è ciò che c'insegna l'epigrafe INRI, esotericamente tradotta da Iesus Nazarenus Rex Iudaeorum, ma che prende in prestito alla croce il significato occulto: Igne Natura Renovatur Integra. Perché, presto, il nostro emisfero sarà provato col fuoco e nel fuoco. Ed allo stesso modo con cui, per mezzo del fuoco, si separano i metalli impuri dall'oro, cosi, dice la Scrittura, i buoni saranno separati dai cattivi nel gran giorno del Giudizio. Su ognuna delle quattro facce del piedistallo, si nota un simbolo differente. Su di una è scolpita l'immagine del sole, su di un'altra quella della luna; sulla terza, c'è una grande stella e sull'ultima una figura geometrica che, come abbiamo appena detto, è lo schema adottato dagli iniziati per indicare il ciclo solare. Si tratta d'una semplice circonferenza divisa in quattro settori da due diametri, che s'intersecano ad angolo retto. I settori portano scolpita un'A che li caratterizza, cosi, come le quattro âges* (*Età. N.d.T.) del mondo; essi formano quindi un geroglifico completo dell'universo, formato dai segni convenzionali del cielo e della terra, delle cose spirituali e delle cose terrene, del macrocosmo e del microcosmo, e nel quale si ritrovano riuniti gli emblemi maggiori della redenzione (croce) e del mondo (circonferenza).
Nel medioevo, dunque, si esprimeva la rotazione continua di queste quattro fasi del grande periodo ciclico, per mezzo d'un cerchio diviso da due diametri perpendicolari; ciascuna fase, generalmente, era rappresentata dai quattro evangelisti o dalla loro lettera simbolica che era l’alfa greca, e, più spesso, dai quattro animali evangelici che attorniavano il Cristo, raffigurazione umana e vivente della croce. Quest'ultima composizione tradizionale si trova assai di frequente nei timpani dei portali romanici. Gesù è raffigurato seduto, con la mano sinistra appoggiata ad un libro, la destra alzata nel gesto della benedizione, e separato dai quattro animali che gli fanno corona dall'ellisse chiamata Mandorla mistica. Questi gruppi scultorei, generalmente separati dagli altri da ghirlande di nuvole, sono composti con le figure messe sempre nello stesso ordine, come si può notare nelle cattedrali di Chartres (portale del rè) e di Le Mans (portico occidentale), nella chiesa dei Templari di Luz (Hautes-Pyrénées), in quella di Civray (Vienne), nel portale di Saint-Trophime ad Arles, ecc. (tav. XLIX).
Scrive san Giovanni : « Davanti al trono c'era anche un mare di vetro simile a cristallo; ed in mezzo al trono ed intorno al trono, c'erano quattro animali pieni di occhi sia davanti che di dietro. Il primo animale assomigliava ad un leone; il secondo assomigliava ad una mucca; il terzo aveva il viso come quello di un uomo, ed il quarto as somigliava ad un'aquila che vola* (* Apocalisse cap. IV, vv. 6 e 7.). » Questa relazione è simile a quella di Ezechiele: « Io vidi dunque... una grossa nuvola ed un fuoco che la circondava, e tutt'intorno uno splendore, in mezzo al quale c'era qualcosa di simile al metallo che esce dal fuoco; ed in mezzo a questo fuoco si vedevano riuniti quattro animali... E le loro facce rassomigliavano ad un viso di uomo; e tutt'e quattro, a destra, avevano il muso d'un leone; e tutt'e quattro, a sinistra, avevano il muso d'un bue; ed al di sopra tutt'e quattro avevano un muso d'aquila* (* Cap I, vv. 4 e, 5, 10 e 11.)»
Nella mitologia indù, i quattro settori uguali della circonferenza, formati dalla croce, servivano di base ad una concezione mistica assai singolare. L'intero ciclo dell'evoluzione umana è incarnato sotto l'aspetto d'una vacca, che simbolizza la virtù, ed i suoi quattro zoccoli stanno ognuno su uno dei quattro settori che raffigurano le età del mondo. Nella prima età, che corrisponde all'età dell'oro dei Greci e che è chiamata Credayougam o età dell'innocenza, la Virtù si mantiene stabilente sulla terra: la vacca si appoggia completamente con i suoi quattro piedi. Nel Tredayougam o seconda età, corrispondente all'età dell'argento, la vacca s'indebolisce e si tiene solo su tre zampe. Per tutta la durata del Touvabarayougam o terza età, corrispondente a quella del bronzo, essa si riduce a due piedi soltanto. Ed infine nella nostra età del ferro, la vacca ciclica, o l'umana Virtù, giunge al supremo grado di debolezza e di senilità: si sostiene a fatica, in equilibrio su di un solo piede. È la quarta ed ultima età, il Calyougam, età di miseria, di disgrazia e di rovina.
L'unico sigillo dell'età del ferro è quello della morte. Il suo geroglifico è lo scheletro provvisto degli attributi di Saturno: la clessidra vuota, che indica il tempo trascorso, e la falce, riproduzione del numero sette, che è il numero della trasformazione, della distruzione, dell'annientamento. Il Vangelo di quest'epoca nefasta è quello scritto sotto l'ispirazione di san Matteo. Matthaeus, in greco ……, deriva da ……, ……, che significa scienza. Questo vocabolo ha prodotto ….., ….., studio conoscenza, da ….. imparare, istruirsi. È il Vangelo secondo la Scienza, l'ultimo tra tutti, ma per noi il primo, perché c'insegna che, tranne un piccolo numero d'eletti, noi dobbiamo perire collettivamente. Per questa ragione l'angelo fu attribuito a san Matteo, perché la scienza, la sola capace di penetrare il mistero delle cose, quello degli esseri e del loro destino può dare all'uomo delle ali perché si elevi fino alla conoscenza delle più alte verità e giunga fino a Dio.







CONCLUSIONE

Scire. Potere
Audere. Tacere.

 ZOROASTRO


 La Natura non apre a tutti, indistintamente, la porta del santuario.
 In queste pagine il profano scoprirà, forse, qualche prova di una scienza vera e positiva. Noi però non pretenderemo d'essere onorati dalla sua conversione, perché non ignoriamo quanto tenaci siano i pregiudizi, e quanto sia grande la forza delle prevenzioni. Il discepolo, tuttavia, ne ricaverà maggior profitto, a condizione che non disprezzi le opere dei vecchi Filosofi, che studi, accuratamente, ed approfondendoli, i testi classici, finché non abbia acquisito una sufficiente e lucida visione che gli permetta di discernere i punti oscuri della tecnica operatoria.
Nessuno può pretendere di possedere il gran Segreto se non accorda la propria esistenza al diapason delle ricerche intraprese.
Non è sufficiente essere studioso, attivo e perseverante, se manca un solido principio, che sia una base concreta, se l'entusiasmo smodato accusa la ragione, se l'orgoglio tiranneggia il giudizio, se l'avidità si accresce alla fulva luce d'un astro d'oro.
La Scienza misteriosa ha bisogno di molta equità, di esattezza, di perspicacia nell'osservazione dei fatti, d'uno spirito sano, logico e ponderato, d'un'immaginazione viva ma senza esaltazione, d'un cuore ardente e puro. Inoltre, essa esige la più grande semplicità e l'assoluta indifferenza nei confronti delle teorie, dei sistemi, delle ipotesi che, generalmente, sono ammessi senza dimostrazione, facendo fede sui libri o sulla reputazione dei loro autori. Essa vuole che i suoi aspiranti imparino a pensare di più col proprio cervello, e meno con quello degli altri. Essa pretende, infine, ch'essi chiedano la verità dei suoi principii, la conoscenza della sua dottrina e la pratica dei suoi lavori alla Natura, nostra madre comune.
Con l'esercizio costante delle sue facoltà d'osservazione e di ragionamento, con la meditazione, il neofito salirà i gradini che conducono al

SAPERE.

L'imitazione ingenua dei procedimenti naturali, l'abilità unita all'ingegnosità, le luci d'una lunga esperienza gli assicureranno il
POTERE.

Divenuto realizzatore, avrà ancora bisogno di pazienza, di costanza, di volontà incrollabile. Audace e risoluto, la certezza e la fiducia nate da una solida fede gli permetteranno di

OSARE.

Infine, quando il successo avrà consacrato tanti anni laboriosi, quando i suoi desideri saranno esauditi, il Saggio, disprezzando le vanità di questo mondo, si accosterà agli umili, ai diseredati, a tutti coloro che lavorano, soffrono, lottano, si disperano e piangono quaggiù. Discepolo anonimo e muto della Natura eterna, apostolo dell'eterna Carità, resterà fedele al suo voto di silenzio.
 Nella Scienza, nel Bene, l'Adepto deve, per sempre,

TACERE




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